INTERVISTA A PIERO SIMONDO JORN, L'ARTE E LA SCIENZA, IL
LABORATORIO... a cura di Cesare Viel C.V. - Incominciamo con il parlare del tuo
rapporto con Asger Jorn. P.S. - Jorn rappresenta la mia fonte
primaria. Con lui sono stato in stretto rapporto d'amicizia per un certo
periodo di tempo. Era arrivato in Italia nel '54, quando il gruppo CoBrA di
fatto non esisteva più. CoBrA era nato subito dopo la fine della guerra, intorno
al 1947/48, dall'incontro di artisti di area scandinava che, relativamente ai
loro paesi, erano fortemente politicizzati. Appartenevano ad un'area che si può
definire comunista. Molti dei materiali determinanti in quella vicenda sono
stati raccolti e pubblicati da Gerard Berreby. In questo libro ("Documents
relatifs à la fondation de l'Internationale Situationniste", ed. Allia,
Parigi 1985) si può vedere abbastanza bene tutta la parabola ideologica del
movimento CoBrA. Sul terreno del movimento, CoBrA era strettamente legato ad
una pratica di teorizzazione d'idee da parte di un gruppo abbastanza ristretto
di artisti che avevano attraversato la guerra (Jorn era del '14, ad esempio,
Constant del '28 ecc.). Nel dopoguerra si poneva una serie di problemi che, nei
vari paesi europei, si focalizzavano nel tema dell'impegno, del rapporto
complesso con la politica; si trattava di una questione molto sentita. Molta
gente aveva partecipato alla resistenza ed era antifascista. Dicevo che Jorn, per motivi suoi, era venuto
in Italia nel 1954 e precisamente a Milano, dove c'era la Triennale. Qui
conosce Sottsass, Baj e Dangelo. Costoro gli sembravano le frange a lui più
vicine in Italia. Jorn era convinto che negli anni '50 a Milano ci fosse il
movimento di architettura più importante, con tutto il fenomeno del
neo-razionalismo. La riflessione teorica sul problema del
rapporto tra arti e architettura interessava molto a Jorn. Il nucleo della sua
elaborazione però non derivava da CoBrA ma da esperienze ancora precedenti: nel
'36 Jorn aveva lavorato a Parigi nell'atelier di Le Corbusier. Da questo punto
di vista Jorn era molto legato a tutto ciò che era stato lasciato aperto dal
Bauhaus e intendeva combattere la tendenza che in quegli anni Max Bill cercava
di imporre ricostruendo il Bauhaus ad Ulm. Alla Triennale Jorn aprì dunque una
polemica volta a contrastare una concezione dell'arte ispirata ai canoni
dell'Arte Concreta. Questo perché Jorn aveva delle matrici completamente
diverse dal punto di vista pittorico: la pittura scandinava era molto legata
all'idea di cultura popolare, a tutto un patrimonio che si riallaccia,
attraverso complesse ramificazioni, alla tipologia del Romanticismo tedesco.
Inoltre quando Jorn si riferiva al Bauhaus degli anni '20 pensava, in particolar
modo, alla presenza di maestri come Kandinsky e Paul Klee che tentarono di
resistere alle tendenze che avrebbero condotto in seguito alla liquidazione
delle loro ricerche. Quindi Jorn porta a Milano nel '54 tutta questa storia,
problematica ed anche di difficile comprensione. C.V. - Come fu percepita, dunque, la
presenza di Jorn a Milano in quel periodo? P.S. - Ricordo che l'architetto Pica,
allora direttore della Triennale milanese, parlando con me, definì Jorn una
"bella macchietta", un po' perché si presentava in modo strano ma
anche perché a quei tempi non era così evidente come quello che diceva fosse,
in realtà, importante. Da Milano poi Jorn finisce per confluire su Albisola,
dove tra l'altro riscopre il Futurismo e lavora con la ceramica, sempre inseguendo
la sua ricerca di sintesi delle arti, anche se il suo problema non era solo
questo. In questo periodo, come ho già accennato, CoBrA non c'è più. C'è
soltanto nel senso che Jorn ha degli amici o nemici, a seconda del punto di
vista, con cui resta in contatto. CoBrA era stato un gruppetto di dodici o
tredici persone, una sorta d'insieme apostolico. Sotto la spinta di Jorn aveva
pubblicato svariate monografie. Jorn - infatti - era un convinto assertore
dell'importanza della comunicazione scritta e della stampa: secondo lui
qualsiasi cosa avrebbe dovuto essere stampata e aveva ragione perché altrimenti
molte cose sarebbero andate perdute. Quando l'ho conosciuto, dopo il suo arrivo
in Italia, queste cose erano ormai finite e il nome CoBrA in ciò che seguirà
non comparirà più. Non è stato un caso che - approdato a Milano per
intervenire, con la fama d'essere un curioso personaggio, contro Max Bill -
abbia risuscitato il nome del Bauhaus ed iniziato a darsi da fare per creare un
nuovo movimento. Il nome - M.I.B.I. - ha tutta una serie di risonanze:
"movimento" ha la sua importanza; "internazionale" anche,
nel senso di un richiamo a temi, se vogliamo, di carattere politico, anche se
indiretto, se no non si spiegherebbero le vicende che hanno legato Jorn al
Lettrismo, in specie all'Internazionale Lettrista e a Debord. C.V. - Vi siete conosciuti ad Albisola? P.S. - Sì, nell'estate del '55. Ad
Albisola Jorn aveva chiamato alcuni amici tra cui Matta che con CoBrA non aveva
niente a che fare, ma - piuttosto - con le propaggini ultime del Surrealismo,
così come Lam. C.V. - Jorn, Corneille, Appel lavoravano
insieme? P.S. - Lavoravano nel forno di Bianco a
Pozzo Garitta e un po' anche da Mazzotti. Lavoravano assieme ma ognuno per
conto proprio. Non facevano lavori in collaborazione con un progetto comune. E
non é neppure che gli altri aderissero al Bauhaus Immaginista. Era, tutto
sommato, una situazione abbastanza casuale. Tutto quanto era - se mai - nella
testa di Jorn. Ecco, si può dire che anche la presenza di Fontana e dei
Nucleari, creasse più che altro una "situazione di movimento": nel
senso di persone che erano ancora marginali nella cultura e che cercavano di
emergere e trovare degli spazi. Erano sussulti d'avanguardia, un residuo
d'avanguardia che però, rispetto ad altre posizioni d'allora, pareva più
avanzato. Baj e Jorn erano, in realtà, molto lontani tra loro. La contiguità
che si é tentato di costruire si fonda per lo più su motivi esteriori. Ad
esempio, dal volume di Berreby - in cui tutti i materiali sono stati messi
insieme - emerge una visione di quei fenomeni più unitaria di quanto sia stata
nei fatti. Credo che questo di possa avvertire facilmente. C.V. - E Gallizio? P.S. - Ad Alba conobbi Gallizio che aveva,
a quei tempi, una piccola fabbrica. Era nato un rapporto con lui perché io ero
interessato a lavorare con la terra. C'era ad Alba anche una cerchia di
intellettuali legati a Chiodi e a Fenoglio con cui si entrava spesso in
polemica. Cominciammo a realizzare alcuni lavori utilizzando delle resine.
Artisti di Albisola (Antonio Siri, Sciutto e Caldanzano) fecero, con il mio
aiuto, una mostra ad Alba. In casa di Gallizio videro qualcuno dei miei lavori
realizzati con la terra e dissero che erano simili alle cose di Jorn, che
ancora non conoscevo. Ci invitarono ad Albisola e a ferragosto del '55 facemmo
una mostra al Bar Testa. Jorn vide i lavori, cominciammo a parlare e decidemmo
di creare un laboratorio che fosse legato al suo Bauhaus Immaginista. Poi Jorn venne ad Alba in settembre e lì
gettammo le fondamenta del laboratorio, la cui realizzazione comportò peraltro
una serie di problemi. C.V. - Di che problemi si trattava? P.S. - Anzitutto che le idee su quel che
doveva essere questo laboratorio non si rivelarono del tutto consonanti. C.V. - Come vedeva Jorn l'idea del
laboratorio? P.S. - Gli piaceva più il nome della
sostanza. Il laboratorio del movimento aveva per lui un senso più che altro
mentale; non lo interessava tanto un laboratorio dove si concretizzassero delle
cose fatte insieme. In fondo Jorn era un produttore molto
individuale, come tutti gli altri d'altronde. Gallizio dava una disponibilità
per quanto riguardava l'uso dei locali. Ma non si riuscì a concretizzare il
progetto di un centro produttivo che avesse una sua dimensione precisa. Quello
che invece Jorn aveva subito avviato era l'idea di pubblicare una rivista, il
cui nome era stato suggerito da me: "Eristica". Per mancanza di soldi ne uscì solo un
numero. L'esito del laboratorio fu il Congresso degli artisti liberi nel '56.
La maggior parte dei contatti maggiori fu stabilita da Jorn. Contemporaneamente
venne organizzata una mostra, accanto ad un'altra sul Futurismo organizzata con
Tullio Mazzotti. C.V. - Quali furono i contatti avviati da
Jorn? P.S. - Jorn venne in rapporto con un
gruppo che si era staccato dal Lettrismo di Isidore Isou: la figura di maggior
spicco di questo gruppo era proprio Guy Debord, il quale si era inteso con Jorn
ed aveva mandato ad Alba come rappresentante Gil J. Wolman. Il problema era cosa sarebbe successo dopo
questo primo congresso; quando ci si riconvocò nel '57 a Cosio d'Arroscia il
risultato fu lo scioglimento del M.I.B.I., perché Debord presentò l'idea di
trasformarlo nell'Internazionale Situazionista. Quest'idea fu accettata. C.V. - Cosa si perse e cosa di acquistò
con il passaggio dal M.I.B.I. all'Internazionale Situazionista? P.S. - Dal punto di vista dei numeri non
si perse niente: si era in pochi e pochi rimasero. Dal punto di vista teorico
ci fu una serie consistente di cambiamenti. Nell'idea del M.I.B.I. c'era
qualcosa del vecchio Bauhaus, qualcosa che si ricollegava all'idea di rapporto
tra le varie arti e l'industria, l'idea di un certo fare da laboratorio nel
senso di realizzare qualcosa in un dato modo attraverso il rapporto dell'arte
con la scienza. Questa era una delle cose che interessavano a Jorn in un senso
sperimentale e di oggettivazione di questi problemi. D'altra parte, questo
aspetto si scontrava con le convinzioni di Jorn che, per certi versi, vedeva
come fumo negli occhi qualsiasi cosa che sembrasse compromettere il suo
principio di libertà creativa. Anche Debord vedeva queste cose come fumo
negli occhi, ma per tutt'altre motivazioni teoriche. Per lui il problema si
poneva solo nei termini di un'azione politica più o meno diretta, strada sulla
quale la stessa I.S. naufragò. Nel rapporto arte-rivoluzione per Debord l'arte
spariva, rimaneva solo l'idea della rivoluzione condotta anche contro l'arte
stessa, vista come l'espressione di ciò che era necessario rivoluzionare, come
un elemento da superare e scartare. Quest'ottica del superamento era
estremamente idealistica. Per Debord non si poteva andare avanti in un certo
modo ma era necessario chiudere e aprire un nuovo percorso: con questo si
voleva dire che una buona parte dell'esperienza del Bauhaus Immaginista e anche
dell'ex CoBrA era in sostanza definitivamente liquidata. Tra l'altro, se si va a vedere il Rapporto
sull'I.S. di Debord si può notare come le sue matrici culturali, i suoi
riferimenti e la sua ricostruzione della storia dell'arte avessero come
antecedente unico il Surrealismo e, per di più, il solo Surrealismo francese. L'I.S. fu, di fatto, segnata da una sorta
di sciovinismo francese. Lo scontro si creava perché l'idea di rivoluzione era
assunta in termini che comportavano il superamento o addirittura la negazione
di qualsiasi cosa, prima ancora che venisse realizzata. Gli artisti si
trovarono quindi sbilanciati, perché tutto ciò che appariva sotto la categoria
dell'arte ricadeva nella contraddizione che bisognava eliminare. Su queste cose
infatti, per quel che mi riguardava, mi dissociai, dato che non intravedevo
nessuna prospettiva ma solo l'antica contraddizione per cui da un lato il
principio rivoluzionario si trasformava in un palcoscenico per quelle cose che
in teoria si sarebbero volute negare e su cui ognuno aveva costruito le proprie
avventure, compreso lo stesso Debord il quale in realtà pubblicò da Gallimard.
Quindi io nel 1958 ero fuori. C.V. - E Jorn? P.S. - Jorn non venne espulso per ragioni anche
molto più banali: avendo ormai un certo mercato finanziava la pubblicazione del
bollettino dell'I.S.. Il mercato era partito a sua insaputa nell'estate del '57
per merito di Carlo Cardazzo che aveva venduto due suoi quadri a Peggy
Guggenheim. C.V. - Si può approfondire il discorso
circa il concetto di sintesi delle arti in Jorn? P.S. - Jorn aveva come matrice culturale
la filosofia tedesca. Era addirittura più hegeliano di quanto non fosse il
marxista Debord. Jorn era davvero tedesco nella sua impostazione del problema
dell'arte e della scienza, o meglio del rapporto arte-scienza-morale. Il suo
problema era come collocare nella pratica artistica queste categorie. Lui
tendeva a separare e, contemporaneamente, ad unire queste cose e queste forme
di pensiero. Era convinto che il suo fosse uno schema più che dialettico, dato
che non era uno schema a due poli ma almeno a tre. Ad esempio, accanto a questo
schema di derivazione hegeliana aggiunge la critica della scienza di Niels Bohr
(che era, come lui, danese) ed anche la teoria di Einstein. Assumeva inoltre una parte dello
strutturalismo in virtù del suo interesse per l'archeologia antropologica,
cercando comunque di preservare il più possibile il polo della creazione che
gli pareva non potesse venir abbandonato. In questo intrico c'é un chiaro
riferimento a tutta una serie di problemi che non hanno a che fare soltanto con
la cultura popolare ma che riguardano, per certi versi, la teoria del profondo,
Jung e Freud, più Jung che Freud. Riassumendo, Jorn dice: se consideriamo la
scienza come il terreno dei "perché", allora l'arte - e anche
l'estetica - diviene il terreno del "perché no?". La domanda estetica implica quella morale,
che distingue "questo si", "questo no". E qui appare
l'aut-aut di Kierkegaard, di cui si diceva parente. L'interrogazione estetica,
quindi, è per Jorn quella che, in aggiunta all'esigenza morale, stravolge il
perché. Con il "perché no?" ricompare infatti la sfera del desiderio
e tutta una serie di problemi dove l'arte ha radici e proiezioni che non
possono venir facilmente liquidate. Credo che su questo versante
l'impossibilità di stabilire un terreno comune con Debord sia evidente, anche
se in Debord c'è un'ambiguità che resta, perché il concetto di Debord di
situazione come creazione continua, questo regno del desiderio, fa emergere un
intrico di problemi irrisolti che spiega anche le ragioni di un avvicinamento
fra certe posizioni sue e di Jorn. Così anche nella mia idea di laboratorio
c'erano i fattori del desiderio e del "perchè no?". Un laboratorio
che non fosse scientifico in senso stretto ma un laboratorio artistico. C.V. - E' ciò che dice il suo testo su
"Eristica", là dove parla del concetto di struttura operativa in
contrapposizione a quella descrittiva o prescrittiva? P.S. - Si, esatto. Era proprio questa
idea, più o meno vaga, che comunque ho continuato a portare avanti, riuscendo
meglio a realizzarla a livello di rapporto educativo. C.V. - Si può approfondire questo aspetto? P.S. - Si, è l'idea fondamentale che
ciascuno può realizzare la propria arte. Ricordo di averne discusso con Debord;
l'idea fu ripresa anche nell'attività di Gallizio, ma la sua "pittura
industriale" è poco più d'una boutade. Comunque di questo si trattava:
affrontare l'esperienza estetica, anche produttiva, senza delegarla al genio o
al produttore specializzato. Inoltre ci si opponeva alla divisione del lavoro
culturale, se non addirittura a quella del lavoro sociale, indubbiamente assai
più difficile. Il diritto di farsi la propria arte, che era una delle tante
idee del laboratorio, su di me aveva un riflesso specificamente operativo.
Questa mia posizione creava - all'interno del laboratorio - una contraddizione:
se veramente era possibile farsi la propria arte, la posizione dell'artista di
professione sembrava pregiudicata, anche se poi non è così vero. Ricordo che
Debord, a questo proposito, aveva lanciato l'idea di fare quadri di tutti i
tipi, soprattutto dei falsi. Ma nella proposta di Debord c'era ancora
l'esigenza di un distacco dal mercato borghese visto come un valore negativo,
come sfruttamento, per cui l'immissione sul mercato dei falsi aveva lo scopo di
mettere a nudo il meccanismo del mercato stesso, svalorizzando il prodotto. In
questa teoria comunque si annidava ancora quella dialettica che per certi versi
l'idea del laboratorio contestava in maniera ancor più radicale, nel senso che
- secondo il mio modo di vedere - la svalorizzazione non era più legata ai
meccanismi del valore economico ma, piuttosto, al suo contrario, ossia al fatto
che ognuno poteva produrre i propri valori senza aver bisogno di passare
attraverso le strettoie della dialettica individuata dal pensiero di Debord.
Nel laboratorio dunque c'era tutta questa problematica e la presenza di questi
punti di vista creava un clima comune, ma non così organizzato come si é
tentato di mostrare successivamente, valendosi di proiezioni parziali. C.V. - Le cose, quindi, erano molto più
frammentate di quanto non possa apparire ad un primo sguardo? P.S. - Jorn aveva in testa quest'idea del
Movimento, anche nel senso letterale del termine: mettere in moto delle cose.
Che poi queste fossero anche coerenti fra loro lo interessava meno. Perché la
sua preoccupazione - se vuoi, paura - era che tutto si cristallizzasse,
prendesse una forma definitiva. Da questo punto di vista Jorn era un
movimentista senza uno statuto ideologico ben preciso. Ciò che voleva era
approfondire la sua ricerca d'integrazione delle arti. Perciò, venuto in
Italia, aveva stabilito contatti con chiunque fosse disposto ad ascoltarlo. In
particolare, per quanto riguarda l'ambito degli architetti più o meno
affermati, entra in rapporto con Sottsass, con i Nucleari e con il loro
mecenate, l'avvocato Paride Accetti, collezionista - fra l'altro - di disegni
d'architettura futurista (possedeva buona parte dei progetti di Sant'Elia).
Conosce anche Fontana che era un po' il punto di riferimento per le ricerche
più avanzate di quel momento. La mia impressione personale - che peraltro
ritengo fondata - é che il Gruppo CoBrA sia stato conosciuto in Italia solo con
l'arrivo di Jorn e comunque da un numero molto limitato di persone. In realtà,
persino artisti come Appel o Corneille, più giovani di Jorn, mi sembrano già
degli epigoni pronti ad utilizzare la situazione per lanciarsi sul mercato
internazionale dell'arte. Jorn, poi, sempre nella sua particolare visione
movimentista delle cose, aveva contattato un gruppo, anche questo piuttosto
marginale: l'Internazionale Lettrista, nata sul terreno della contestazione
artistica legata soprattutto ad esperienze di tipo cinematografico.
L'Internazionale Lettrista in seguito avrebbe assunto connotati sempre più
manifestamente politici, di azione diretta nei confronti, ad esempio, della
guerra d'Algeria. Anche in questo caso si trattava di un piccolo
gruppo, aggressivo ma conosciuto solo in un ristretto ambiente parigino
attraverso la rivista "Potlach". Jorn entra in contatto con loro
perché esisteva un possibile legame intorno alla concezione
dell'"urbanesimo unitario". Anche i membri dell'I.L. erano
interessati al problema - caro a Jorn - del rapporto fra l'arte e gli ambienti
della vita sociale. Debord aveva lavorato con Henri Lefebvre. I lettristi erano
passati da problemi più strettamente linguistico cinematografici al fenomeno
della "psicogeografia". Le mappe psicogeografiche disegnavano ipotesi
estremamente affascinanti, legate ad un vivere marginale nella metropoli. Si
cercava di passare nei pochi luoghi d'incontro, ad esempio i bar, attraverso
una "deriva": di muoversi nella città e di vedere dove questo
movimento riusciva a condurti. Su questo girovagare si costruiva in seguito una
mappa di percorso. Le mappe erano il resoconto di questo andare alla deriva
nella città. Restava comunque il problema di evitare una rigidità procedurale
che bloccasse la deriva stessa. L'idea - che era anche di Jorn - di rimettere
continuamente in moto il corso delle vicende non appena rischiavano di
fermarsi, ha alle spalle il concetto di "rivoluzione permanente" di
Trotzkij. In comune fra tutte queste ricerche c'era la protesta, un disagio nei
confronti delle istituzioni, una forza gravitazionale. C.V. - A quell'epoca quali forme
d'istituzione artistica v'infastidivano di più? C'era, su questo punto, una
differenza con Jorn? P.S. - Si, c'era una differenza, che si
può riscontrare anche da come poi sono andate le cose. Io ero mosso da un
rifiuto, da una rivolta motivata contro il mercato e in particolare contro un
sistema dell'arte fondato sui pilastri dell'estetica, della critica, del
professionismo artistico, delle gallerie. Questa d'altronde é una storia che
continua. Tutto l'insieme non é stato per nulla intaccato, anzi la situazione é
divenuta sempre più smaccata. Comunque non c'è solo l'aspetto denunciato da
Debord: questa crisi, la società dello spettacolo. C'è anche il fatto che la
crisi non rappresenta la soluzione; la crisi può continuare perché non c'è
limite all'infezione. Continua il sistema artificiale dei valori, al quale -
bene o male - finisce con l'aderire chiunque. A quel tempo io me la prendevo
contro tutto questo, cercando di "devalorizzare" a mio modo. La via
d'uscita che mi pareva più praticabile (e questo era il punto di maggior intesa
con Jorn) stava nell'approfondire il rapporto tra arte e scienza. La linea
ufficiale consisteva invece nel separare nettamente i due campi operativi:
l'arte appartiene all'universo che Debord definirà "dello
spettacolo", la scienza invece all'universo delle attività cosiddette
serie. La differenza fra Jorn e me, invece,
verteva più sull'atteggiamento verso il mercato: io non l'ho mai accettato
mentre Jorn riteneva che movimento e mercato fossero due piani separati ma non
incompatibili: il mercato poteva eventualmente fornire i soldi necessari per il
movimento: tra i due campi non c'era alcun rapporto se non questo, di carattere
strumentale. La posizione di Debord era ancora diversa:
non gli importava di nessuna di queste cose e voleva muoversi in una direzione
decisamente "anti", che cavalcava la protesta politica. Da questo punto di vista, in realtà, del
movimento CoBrA non vedo nessuna realizzazione. Non é che qui si fosse
ricostituito perché CoBrA aveva avuto una sua collocazione precisa, molto
legata al dopoguerra e alla storia della cultura dei paesi nordeuropei, una
cultura di carattere progressista. Qui, in Italia, cose del genere non
esistevano. Ad esempio, tra Jorn e Fontana non vedo - sinceramente - nessun
tipo di rapporto, nei lavori che realizzavano. Fontana veniva da tutt'altri
percorsi: credo anzi che fondamentalmente non si comprendessero. Anche se,
proprio perché era finita la guerra, c'era una ripresa dell'idea di
avanguardia, dato che il mondo si era distrutto. Il tratto comune a tutti noi
non era che un'aspirazione al rinnovamento. Ad un certo punto, infatti, Jorn
pensava di poter inserire nel movimento le istituzioni, in particolare quelle
dei musei olandesi e scandinavi. che si trovavano su posizioni all'avanguardia.
In Danimarca, amici di Jorn avevano occupato posti dirigenziali nei musei
d'arte contemporanea e lui, attraverso questi rapporti, cercò di far entrare il
movimento. C.V. - Questi sforzi ebbero esiti
concreti? P.S. - Si, ma non nello spirito del
movimento, perchè quando si creò la possibilità d'un accesso museale, proprio
questa circostanza determinò l'esplosione del progetto. Jorn mi raccontò che,
quando venne lanciata la manifestazione organizzata dallo Stedelijk Museum di
Amsterdam nel '61/'62, gli interessi dei vari gruppi erano ormai completamente
centrifughi. Constant, fra l'altro, aveva ideato un labirinto nell'ambito di una
più vasta progettazione legata al concetto di "derive", ma non appena
diede vita a "New Babilonia" venne allontanato perché - secondo
Debord - rappresentava un passo indietro, riproponendo la questione nei termini
tradizionali dell'arte, e quindi il suo tentativo veniva visto come un vendersi
a quella società che si sarebbe dovuta scardinare. Per Gallizio, invece, la mostra
rappresentava una sorta di rivincita, nei confronti della sua posizione, e così
via... Ognuno perseguiva uno scopo diverso da quelli degli altri. Jorn, dal
canto suo, poteva permettersi qualche lusso, dato che dal '57 era entrato nel
giro del grande mercato ed era divenuto così un valore. La mia idea di laboratorio, quindi, la
portai avanti in altro modo: insegnando. Ma, per tornare al Congresso di Alba,
alcune delle posizioni espresse dal gruppo di Debord (l'Internazionale
Lettrista) sconvolsero i milanesi. Non accettarono di firmare una dichiarazione
contro la Triennale e vennero così immediatamente esclusi. Nel '62, poi, erano fuori tutti gli
artisti che avevano partecipato alla costituzione dell'Internazionale
Situazionista, compresi Jorn e Constant. La storia dell'I.S. durerà ancora
dieci anni ma il discorso diventerà sempre più chiuso, più settario, con l'uso
disinvolto dell'attacco e della provocazione. C.V. - Riguardo al rapporto arte-scienza
anche i Nucleari avevano qualcosa da dire. Qual era la differenza rispetto alle
posizioni di cui si é parlato? P.S. - I Nucleari pensavano ad un rapporto
arte-scienza di tipo letterario. L'idea dell'"arte nucleare" è
un'espressione, tutto sommato abbastanza convenzionale, dell'attualità
dell'epoca. Non si dava in loro un rapporto tra l'arte e la scienza, semmai un
problema di metafora. C.V. - Quindi il discorso si poneva ad un
livello completamente diverso? P.S. - Si, perché non c'era nei Nucleari
lo sviluppo di una problematica tra il campo artistico e quello scientifico.
Non avevano nessun interesse ad approfondire questi rapporti, nè sotto
l'aspetto filosofico, al modo di Jorn, né in una direzione più fredda e
metodologica come io la concepivo e nemmeno nel senso politico propugnato da
Debord (opzioni teoriche, queste, tra loro contrastanti ma che comunque
individuavano delle posizioni). C.V. - Sintetizzando, si può ipotizzare
una reale fecondazione, un passaggio nell'Italia degli anni '50 delle tematiche
di CoBrA e, in particolare, di Jorn? P.S. - Rispetto a CoBrA erano ormai mutate
le condizioni di base, per cui quando Jorn viene in Italia non lo fa più come
esponente di CoBrA ma come uno che ha già tagliato i ponti con questa
esperienza, in parte anche perché alcune cose che aveva pensato in quel
contesto non erano poi passate. Comunque é molto difficile rispondere con
precisione a questa domanda, perchè è difficile sceverare le diverse componenti
all'interno di un clima complessivo. E' certo che Jorn ha influenzato anche
cose mie, ma ancora di più i lavori di Gallizio, sul quale anch'io ho avuto un
ascendente, perchè Gallizio nasce da questi incontri, prima con me e poi con
Jorn. Certo, per vari aspetti, il peso di Jorn é più consistente del mio.
Quanto a Gallizio ho sempre sostenuto che si é trattato di uno dei pochi naif
non figurativi degli anni '5O. In altri casi questo tipo di rapporti si vede
meno, ma ho l'impressione che il "Gesto" abbia subito
quest'influenza, anche se ce ne sono state anche altre. D'altronde Jorn e
Dubuffet si conoscevano, anche se quest'ultimo era più vecchio e cominciò tardi
a dipingere, ma non si può dire che Dubuffet dipenda da CoBrA più di quanto
CoBrA dipenda da Dubuffet. Quello che conta é che ci fu una sorta di
"esprit" del momento, per cui determinate cose che vennero fatte qui
somigliano molto ad altre fatte invece in America, sebbene manchi un legame
vero e proprio. Maturano e vengono fuori... Poi certe forzature si fanno a
posteriori per creare una linea genealogica di comodo, ancora secondo l'antico
cliché della noblesse... andando a cercare i quarti di nobiltà, ma questi sono
solo vecchi modelli. Di fatto però Jorn - ma anche Constant ed il Situazionismo
- portano nella pittura italiana degli elementi che qui non c'erano, nel senso
che le cose di cui si occupavano erano estranee al circuito culturale ufficiale
italiano, venivano percepite come del tutto marginali. D'altra parte sono stati
importanti proprio per questo, per aver introdotto idee diverse, che si
trovarono a confluire con altre posizioni marginali che non riuscivano a
trovare ascolto. Per quanto mi riguarda, ho trovato in
Jorn, su varie questioni, conferme e appoggi di cui altrimenti, qui, non avrei
mai potuto fruire. In questo senso c'è stata una risonanza sotterranea e non
estesa, più che un'influenza. La cassa d'amplificazione massmediatica
viene solo in un secondo tempo e sopraggiunge proprio quando i contenuti sono
spariti dalla realtà. Quel clima é stato amplificato non certo per i suoi
contenuti ma perché diveniva una bandiera ed un fattore promozionale; le cose
più importanti sono cadute e sono rimasti solo gli aspetti più di facciata,
mentre altre rimangono ancora lì: problemi che non si toccano perchè non si
saprebbe da che parte incominciare. C.V. - Quale ruolo svolgeva il Centro di
Ricerche Estetiche di Torino? Che cosa ha rappresentato l'esperienza del
C.I.R.A.? P.S. - Si é trattato di due vicende
diverse. Nel '57/58, dopo che ero riapprodato a Torino (ma la data iniziale è
poi veramente il 1962), ho costituito il C.I.R.A. (Centro Internazionale
Ricerca Artistiche) che ha una storia sotterranea nel senso che non é mai
uscito fuori clamorosamente. Più o meno in quegli stessi anni, per ragioni che
non conosco, Michel Tapié creò il suo Centro di Ricerche Estetiche. In realtà
su uno dei bollettini d'informazione dell'I.S. fui accomunato all'attività di
Tapié, che tra l'altro - a differenza di Jorn - non conoscevo personalmente. Il
Centro di Tapié era costituito nell'ottica delle gallerie. Mentre il C.I.R.A.,
attraverso la mia persona, si ricollegava al principio del laboratorio, Tapié
non ha nessuna connessione con tutti i discorsi cui accennavo prima, nel senso
che Tapié era un critico e tutto il suo discorso si ricollegava piuttosto
all'informale e quindi ad un mercato già esistente. Il gruppo C.I.R.A.
riprendeva in concreto il discorso interrotto del Laboratorio, nel senso di
un'educazione estetica di base, dove ognuno poteva realizzare i suoi prodotti
anche andando contro il mercato. Era decisamente un discorso anti-Tapié, anche
se a livello di ciò che é stato riportato nei bollettini dell'I.S. sarebbe
stata la stessa cosa. C.V. - Il C.I.R.A. promosse delle
pubblicazioni? P.S. - Si, due o tre bollettini poco
diffusi; c'è altro materiale che non é stato neanche del tutto recuperato. Il
nucleo del lavoro riguardante l'attività del C.I.R.A., comunque, é rimasto
inedito. C.V. - Jorn era al corrente di questa
attività? P.S. - Si, quando venne fondato il C.I.
R.A., ne diedi comunicazione a tutti quelli che conoscevo, chiedendo un aiuto.
Jorn mi rispose in una lettera augurandomi fortuna e mi inviò un assegno.
Quindi sapeva di questa mia attività ma in effetti non era più così interessato
ad un lavoro di questo genere. Aveva mantenuto ancora qualche legame con un
certo Situazionismo di matrice più artistica che si esprimeva attraverso la
rivista "Situationist Time" di Parigi, dove anch'io scrissi un paio
di articoli sul tema del labirinto. Era una rivista in cui si realizzava una
certa confluenza tra la scienza e le arti. Ne uscirono tre o quattro numeri. C.V. - Quindi attraverso il C.I.R.A. viene
approfondito il discorso dell'artista non professionista, iniziato con il
Laboratorio di Alba? P.S. - Nel mio libro sul colore ("Il
colore dei colori", Nuova Italia ed., 1990 N.D.R.) ho scritto che
l'avanguardia ha un oscuro rovello pedagogico. Anche il rifiuto, almeno
verbale, della pedagogia da parte di Jorn é in realtà pedagogico. Non a caso
Jorn fu anche insegnante, all'inizio, in Danimarca. La sua prima professione é
stata quella del maestro. E gli altri se non furono maestri furono scolari. Ho
sempre avuto l'impressione che uno come Debord abbia sofferto in qualche misura
di non aver fatto la Sorbona. Può averlo fatto come scelta, ma in fondo un poco
gli deve aver pesato. Anch'io non posso dire che il non aver seguito il mercato
in certa misura non mi crei dei problemi. E' chiaro: posso aver scelto ma
rimane il problema. Cose di questo genere nascono nel mondo dei chierici. Se si
leggono i documenti del '47 di Jorn, Constant ecc. il rapporto arte-lavoratori
era molto clericale, ambiguo, perché sono sempre i chierici che parlano e
quello che arriva agli altri é comunque distorto. Ritornando al tema del
laboratorio vien fuori l'idea (che mi affascina ancora anche se in maniera
diversa) che tutti potessero in qualche misura produrre quel tanto o quel poco
di bellezza, e questa è una tesi pedagogica. Vale a dire: il laboratorio come
luogo dove chiunque può provare avendo un minimo di riferimento. Questo era un
pensiero estratto dal modello della libera ricerca scientifica, con tutti i
limiti ed i condizionamenti che un progetto del genere si porta dietro.
Comunque centrale era l'idea che la ricerca é aperta: puoi provare e costruire
quel tanto di teoria legata alla prassi che ti é possibile condurre. Cosa che
si può veder bene se ci si riferisce al mondo dei bambini perché con loro
queste cose emergono in modo più evidente. Ma lo si può notare anche al livello
degli artisti per la loro componente fanciullesca (vera o falsa che sia); non a
caso la poetica del fanciullino di Pascoli é più vera di quanto possa sembrare,
nel senso che se la si pensa a fondo non é poi così banale. Ora, confrontando la posizione del
ricercatore non professionale alla figura dell'artista di professione, risulta
evidente come la prima sia più debole: il professionista prevale perché ha
dietro la struttura, cioè tutto quanto garantisce quello di cui ha bisogno per
esser tale. In effetti questo dislivello fra le due
posizioni non disturba, tuttavia penso che le contraddizioni siano reali e non
un'invenzione, per cui alla fine la situazione si può capovolgere nel contrario
e questa specie d'apertura può risultare del tutto illusoria. In realtà niente garantisce che
quest'apertura porti più in là di tanto. Lo si vede anche a livello
dell'esperienza che abbiamo fatto noi, nel senso che i ragazzini che compiono
un certo tipo d'esperienza poi due anni dopo vengono reificati dalla pressa ed
escono chissà come: non si sa cosa sia rimasto di quell'esperienza, raramente
qualcuno di loro va a vedere una mostra. C.V. - Qual è, dunque, l'elemento forte
(se c'è) tra il maestro e l'allievo? Sta forse nel rapporto interpersonale, che
può diventare anche rivoluzionario, rispetto ad un rapporto di lavoro, di
natura esclusivamente professionale? P.S. - Per me é soprattutto quest'idea (in
qualche misura presente anche in Jorn) di rendere disponibile una serie di
possibilità, un po' il concetto di riappropriarsi di strumenti, di mezzi che ti
vengono comunque confiscati. Sono strumenti di varia natura; certo è che questa
riappropriazione resta soggetta a tutta una serie di crisi, di sconvolgimenti.
Quindi si tratta del problema di creare una situazione. Questa parola ritorna
spesso, anche se poi le situazioni che in concreto si realizzano non sono
proprio come ci s'immaginava che dovessero essere. Creare una situazione
significa "modificare delle condizioni". Se tu modifichi un po' una serie di
condizioni t'accorgi che succedono cose assolutamente diverse. Ad esempio,
stando ai sacri testi della psicologia dell'età evolutiva, il bambino
raggiungerebbe il massimo della sua libertà espressiva intorno ai 5/6 anni per
passare poi al realismo visivo. E' facile dimostrare - ed io l'ho fatto più
d'una volta - che, cambiando la situazione e mettendolo in condizione di
compiere un altro tipo d'esperienza, l'individuo non approda dove gli era stato
predetto. Non esiste alcun rapporto predeterminato di questo genere. Che poi
questo significhi cambiare il mondo... beh al riguardo c'è da discutere ma
resta comunque il fatto che anche un piccolo cambiamento non è così
disprezzabile. C.V. - Allora diviene determinante il
fattore tempo? P.S. - Si, certo. Poi questo é anche
legato ad una serie di cose che costituiscono la contraddizione insita in una
gran quantità di faccende. C'è, ad esempio, un problema di numeri: dieci
esperienze hanno un peso diverso rispetto a diecimila, è chiaro. Ciò significa
che entra in gioco la questione del controllo. Finora quel che si è visto
storicamente è che vengono riciclati i sistemi di controllo precedenti. Quanto
Trotzkij diventa commissario dell'Armata Rossa, l'unico gioco che ha in mano è
quello di ricilare gli ufficiali zaristi e appoggiarsi alle strutture di
comando che non vengono toccate, per cui il generale può giurare fedeltà alla
rivoluzione ma in fondo la sua funzione è sempre quella del generale e non
cambia. Allora qui è un po' lo stesso, certamente libertà e illusione sono due
cose molto vicine. Certo, in questa storia di creare
situazioni l'accordo non c'era, nel senso che quando - ad Alba - spingevo
l'idea del laboratorio non ho trovato appoggi concreti nel renderla operativa.
Ad esempio quando al congresso erano venuti, in ritardo, due cecoslovacchi (la
cortina di ferro era allora una realtà ben presente) si mostrarono interessati
a questo progetto. Avevano cercato di dire che sarebbe stato opportuno fare uno
scambio reale: pensavano di mandare degli studenti di Belle Arti. Jorn, dal
canto suo, aveva immaginato e i contatti con la vedova di Leger, ma tutte
queste proposte rimasero inutilizzate. Si volevano creare simili innesti
culturali ma per un certo verso questo tentativo sembrò al movimento
un'attività troppo banale. Jorn però, in Danimarca, quando aveva potuto s'era
dato da fare per far diventare suoi amici direttori di qualche importante
accademia. Quindi l'idea che non si dovesse abbandonare l'ambito della scuola
per Jorn era valida, nel senso che la scuola non la puoi pensare solo come
strumento in mano d'un potere ma occorre pensarla anche nei termini d'una
conquista degli altri. La scuola è in questo senso un concetto ambiguo e
contraddittorio, perchè possiede due facce e anche di più. C.V. - Quindi c'era accordo con Jorn nella
considerazione del problema educativo. P.S. - Si, anche se questi problemi non
venivano resi del tutto espliciti. Sicuramente non trovavano spazio nel
pensiero di Debord. L'interesse che condividevo con lui e con Jorn (c'è stato un
periodo in cui abbiamo lavorato molto insieme) era per un collegamento concreto
di tutte queste cose con la vita sociale. Sembrava di nuovo balenare in una
forma diversa l'idea del gioco dell'arte come un qualcosa che non si poteva
buttar via tanto facilmente. Però tutto questo non é stato portato ad un
livello di dibattito avanzato e strutturato in senso completo. Uno dei limiti, secondo me, era questo: in
realtà il movimento aveva un potere espansivo estremamente limitato e, quindi,
una capacità di dibattito altrettanto ristretta. Sono tutti problemi rimasti aperti (come
la problematica arte-scienza di Jorn) e questa é la cosa più interessante:
alcuni problemi in quel momento sono stati aperti e sono rimasti sospesi:
problemi fondamentali che rimangono lì per anni o addirittura per secolo, per
motivi molto complicati, difficili da comprendere appieno. La questione
sollevata da Jorn non tanto sul rapporto arte-scienza quanto su quello
arte-industria, che si riallaccia alle problematiche del Bauhaus, é una
questione non risolta cui in seguito sono state date svariate risposte, tutte
però estremamente deboli e banali. Il rapporto arte-industria nel senso della
sua produzione economica é rimasto al livello pedestre della sponsorizzazione:
niente di più o di diverso dal cardinale rinascimentale. O si é concretato, per
altro verso, anch'esso affatto semplicistico, nel design. C.V. - Per finire, quale valutazione si
può dare dei rapporti fra arte e industria sorti attorno al M.A.C.? P.S. - Li trovo molto banali, tra l'altro
anche negli esiti. Non ne scaturisce niente di particolarmente interessante,
perché non si attua nessuna vera integrazione: il rapporto tra quelle ricerche
e la realtà, la vita sociale, rimane sempre modesto. Finisce per tornare ad
essere quel che non vorrebbe, cioè décor, nel senso più banale del termine, con
tutta una serie di stereotipi, con un po' di stranezza qua e là ma in effetti
mi pare molto poco e comunque scarsamente incidente. PIERO (PIETRO) SIMONDO é nato a Cosio d'Arroscia,
in provincia di Imperia, il 25 agosto 1928. E' laureato in filosofia. Ha
studiato pittura con Felice Casorati all'Accademia Albertina di Torino. Nel
1955 ha fondato con Asger Jorn il Laboratorio sperimentale per una Bauhaus
immaginista; nel 1957 ha partecipato alla fondazione dell'Internazionale
Situazionista. Nel 1962 ha fondato, a Torino, il C.I.R.A. (Centro per un
istituto internazionale di ricerche artistiche) con il proposito di recuperare
l'esperienza di laboratorio della Bauhaus immaginista e soprattutto la
sperimentazione artistica in senso lato. Dal 1972 si occupa dei Laboratori di
attività sperimentali presso la facoltà di Magistero dell'Università di Torino,
dove attualmente é titolare della cattedra di "Metodologia e didattica degli
audiovisivi." Ha pubblicato: L'alba della logica,
Torino, SEI, 1967; La filosofia del labirinto, in Pi-ninfarina, n. 10, 1969;
Ars vetus, ars modernorum, Torino, SEI, 1971; Spazi edu-cativi e ricerca in
situazione di laboratorio, Torino, Tirrenia Stampatori, 1981; Che cos'é stato
il Laboratorio sperimentale di Alba, Genova, Libreria Editrice Sileno, 1986; La
situazione laboratorio, Torino, Tirrenia Stampatori, 1987; Immagini al
computer: perchè no?, in catalogo Experimenta 88, il villaggio globale, Regione
PIemonte, 1988; Il colore dei colori, Firenze, La Nuova Italia, 1990. OCRA circolare sui problemi dell'arte Genova, ottobre 1992. c/o Sandro Ricaldone Via A.G. Barrili 6/26 16143 GENOVA >>> TORNA ALLA PAGINA
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