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Robert Smithson, “A Tour of the Monuments of Passaic”, 1967
FRANCESCO CARERI: WALKSCAPES
di Sandro Ricaldone
Prima di scoprire la geometria e l’architettura l’uomo disponeva di un solo mezzo per misurare e delimitare lo spazio: l’azione del camminare. Attitudine che in seguito ha fornito materia ad elaborazioni religiose ed a rappresentazioni allegoriche di decisiva importanza, dall’Esodo biblico alle oltremondane peregrinazioni dantesche.
Rimonta invece al tardo medio evo - secondo Daniel Arasse, che ne riconduce gli esordi alla raffigurazione da parte di Masaccio, nel 1426, della “Cacciata del Paradiso” nella Cappella Brancacci della chiesa fiorentina del Carmine - la fortuna del tema della figura umana in marcia. Ma è da fine ‘700 che la riflessione sul camminare si fa più intensa, con le “Les Rêveries d’un promeneur solitaire” (1778) di Jean-Jacques Rousseau, per proseguire nel secolo successivo con le note di Karl Gottlob Schelle, filosofo amico di Kant, che fa della passeggiata la scena “del libero gioco delle forze dell’anima”, con i vagadondaggi romantici di William Wordsworth e l’ecologismo ante litteram di Henry Thoreau.
E’ però con la teorizzazione baudelariana della flanerie (il vagabondaggio urbano) che il camminare da pretesto letterario o pittorico inizia a trasformarsi in azione artistica.
“Non sapersi orientare in una città non vuol dire molto – chiosa in proposito Walter Benjamin – ma smarrirsi in essa, come ci si smarrisce in una foresta, è una cosa tutta da imparare”.
A questo compito le avanguardie artistiche si sono applicate lungo tutto l’arco del ‘900, lungo un percorso che Francesco Careri, artista del gruppo Stalker/Osservatorio Nomade e docente universitario alla Facoltà di Architettura di Roma Tre, ricostruisce in “Walkscapes. Camminare come pratica artistica”, che la casa editrice Einaudi propone in questi giorni in libreria.
Dopo che fotografi sperimentali come Muybridge e Marey ed artisti come Boccioni, Balla e Duchamp avevano investigato su nuove basi la rappresentazione del movimento umano, è Dada ad aprire il nuovo ambito d’esperienze il 14 aprile 1921, invitando il pubblico parigino a prender parte, nel pomeriggio, ad una visita antipittoresca alla Chiesa di Saint Julien le Pauvre, scelta come esempio di luogo “privo di ragione d’esistere”.
All’invenzione dadaista, calibrata su una strategia dell’arbitrarietà, fa seguito tre anni dopo, agli albori del Surrealismo, la proposta di Breton di una deambulazione a quattro, con Aragon, Morise e Vitrac, nella campagna francese, da Blois a Romorantin, “viaggio senza scopo e senza meta” che, nota Careri, si trasforma “in una forma di scrittura automatica dello spazio reale”.
Se questi episodi restano relativamente isolati nelle vicende attraversate dai gruppi da cui sono scaturiti, la pratica della “deriva”, “tecnica di passaggio rapido attraverso ambienti diversi”, si colloca invece al centro del tentativo dell’Internazionale lettrista (e in prosieguo dei Situazionisti) di legare l’arte alla vita quotidiana. Teorizzata nel 1954 da Guy Debord come un “lasciarsi andare alle sollecitazioni del terreno” bilanciato dal “dominio delle variazioni psicogeografiche attraverso la conoscenza e il calcolo delle loro possibilità”, segna il passaggio dalla ricerca di nuove forme al “comportamento” e schiude il campo alla progettazione – da parte di Constant – di New Babylon, città nomade e ludica.
Negli Stati Uniti, ad introdure il tema del movimento nel paesaggio come opera d’arte è il resoconto di un viaggio lungo un’autostrada in costruzione pubblicato da Tony Smith, nel 1966 su Artforum, in cui lo scultore riferiva la sensazione di azzeramento delle categorie tradizionali provata lungo il tragitto e da lui vissuta come “la fine dell’arte”. Una conclusione subito contraddetta da altri autori: in una prima direzione da Carl Andre, uno dei capifila del Minimalismo, che superando d’acchito le perplessità di Smith dichiarerà “in realtà la mia scultura ideale è una strada… la maggior parte delle mie opere sono in qualche modo delle strade, vi obbligano a seguirle, ad andarci attorno o a salirci sopra”; in una seconda da Richard Long, edsponente della Land Art, autore nel 1967 dell’esemplare “A line made by walking” (“Una linea fatta camminando”) per il quale “Carl Andre fa degli oggetti su cui camminare, la mia arte si fa camminando”. Dopo essersi soffermato su “A Tour of the Monuments of Passaic” - un percorso programmato da Robert Smithson nel 1967 fra gli edifici degradati lungo il Passaic River, vestigia di un “futuro dell’abbandono” - Careri evoca, in chiusura del volume, le “transurbanze” del gruppo Stalker (di cui, come s’è detto, fa parte), sottolineando come, al di là delle mere valenze estetiche, il camminare sia divenuto oggi uno strumento insostituibile per riconoscere – nelle parole di Gilles Tiberghien, cui si deve la prefazione – “all’interno del caos delle periferie una geografia”; prezioso “come mezzo attraverso cui inventare nuove modalità per intervenire negli spazi pubblici metropolitani, per investigarli, per renderli visibili”.
(aprile 2006)
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