VERRA’ MAGGIO …

Un profilo delle arti visive in Italia

verso e dentro il ‘68

di Sandro Ricaldone

 

L'attraversamento della scena artistica italiana degli anni '60 tutt'altro che piano e lineare, è reso arduo dalla frequenza di vicoli ciechi, dalla necessità di percorrere a ritroso talune delle sue correnti principali allo scopo di riconoscerne l'esatta direzione. Deponendo ogni pretesa di essere esaustivi, conviene limitarsi ad estrarre dalle cronache spunti che appaiano atti ad evocarne il clima. La situazione all'inizio del decennio era caratterizzata dal rapido declino della tendenza informale e dall'affacciarsi di correnti che in maniera più o meno originale connettevano le proprie esperienze agli esempi di questa o quella fra le "avanguardie storiche": le esperienze di "arte programmata" o "gestaltica", l'attività di Piero Manzoni, la "poesia visiva" e una tendenza, principalmente romana ma contigua ad alcune situazioni straniere, cui prendevano parte, fra gli altri, Fabio Mauri, Franco Angeli, Tano Festa, Giosetta Fioroni e che ebbe in Mario Schifano un termometro sensibile alla nuova emotività dei comportamenti sociali e un coinvolgimento nelle sub-culture mondane e intellettuali alle quali il '68 pose in termini decisi un problema di schieramento, per lo più felicemente risolto. Da notare, in quest'ambito, vicende private a parte, una tensione verso l'arte ambientale e di comportamento, consacrata in esperimenti intermediali "Le Stelle", spettacolo (vagamente warholiano, come attesta la partecipazione di Gerard Malanga) proposto nel Dicembre '67 al Piper Club dallo stesso Schifano, od in manifestazioni quali il "Teatro delle Mostre", organizzato nel '68 dalla galleria "La Tartaruga" di Plinio de Martiis.

Sul piano critico - a prescindere dal sostegno teorico fornito alle diverse correnti da Umbro Apollonio, Giulio Carlo Argan, Umberto Eco ("arte programmata"), Cesare Vivaldi, Maurizio Calvesi, Alberto Boatto ("giovane scuola di Roma"), Vincenzo Agnetti (Piero Manzoni, Konzeptionelle Kunst) - l'operazione forse più fortunata del decennio sembra esser stati l'invenzione della formula "Arte Povera" di cui Germano Celant ebbe a definire - in occasione di una mostra presentata a Genova nel '67 alla galleria "La Bertesca" - un'area di ricerca artistica maturata negli anni precedenti in contesti locali diversi fra i quali predominava quello torinese, riconoscendo agli artisti che vi rientravano il comune intento di porsi in una dimensione ad un tempo conoscitiva e percettiva, saggiando senza mediazioni formalistiche od estetizzanti la totalità della materia (vegetale, minerale, animale e mentale), teorizzato - a partire da Dewey, Cage e Grotowsky - in un'ipotesi di ricongiungimento di arte, vita e politica che, pur largamente influenzata dal clima culturale che andava maturando, rimaneva ad esso, in sostanza, estrinseco. Gli eventi del '68, da cui non riuscirono a preservare la loro trascendenza gli stessi satrapi del College de Pataphysique (che si indussero infatti a pubblicare un quaderno sull'argomento), non lasciarono ovviamente indenne il mondo dell'arte. E se, analizzati retrospettivamente, i sommovimenti che lo animarono (in specie quelli più vistosi come le contestazioni di Biennali e Triennali) appaiono talora diretti 'a cavalcare" la rivolta, talaltra a scaricare sui supporti istituzionali e commerciali le ambiguità insite nella figura dell'artista; se l'assimilazione dell'arte alla sfera politica condensata nello slogan "arte-guerriglia" svela un'ingenuità francamente eccessiva, per taluni (pochi) la questione è andata oltre la semplice ottemperanza agli obblighi imposti dalla Yoga del momento, divenendo occasione di un coinvolgimento esistenziale (oltre che di impegno) assorbente e/o di una radicale riconsiderazione critica della funzione dell'arte in ambito sociale.

Emblematica può esser ritenuta la vicenda di Piero Gilardi, affermatosi negli anni 63/67 con i "tappeti natura", opere (in materiale sintetico riproducenti verdure, sassi, vegetazioni, frutta) che si collocavano in uno scenario fra il pop e l'arte povera (in cui venne infatti cooptato) il quale - dopo essermi dedicato nel fatidico anno ad una intensa attività di informazione e collegamento fra artisti di diversi paesi - dal '69 ha cessato di produrre volgendosi esclusivamente alla militanza politica. A monte di questa scelta, la cui coerenza è superiore a qualsiasi discussione, si intravede peraltro una concezione piuttosto schematica che - come traspare da considerazioni redatte da un collettivo di cui Gilardi faceva parte e da lui condivise - riduce l'arte a mero veicolo formale di messaggi ideologia e subordina rigidamente l'aspetto creativo alla progettazione collettiva alla "verifica delle masse".

Diversa l'attitudine espressa da in altro protagonista di quel periodo, Gianni Emilio Simonetti, già noto, oltre che per la sua opera di artista visivo, posta prevalentemente sotto il segno di Fluxus - di cui più tardi ha tracciato, insieme a Carlo Romano, una non dimenticata "Fenomenologia rozza" ("Le Arti" n. 4, 1976) per gli altri suoi molteplici interessi fra i quali, ai fini del ragionamento, assumono particolare rilievo la contro-cultura giovanile e la riproposta, attuata attraverso l'editrice ED 912 (con Gianni Sassi e Daniela Palazzoli) della tradizione comunista di sinistra da Socialisme ou Barbarie (Paul Cardan) all'Internationale Situationniste (una piccola e all'epoca utilissima antologia di testi). Significativa fu una tanica sulla quale la ED 912 appose la scritta "fire now" e che consigliava agli eventuali acquirenti di porla fra Marx e Freud in biblioteca, alludendo alla possibilità di avere benzina per le molotov nell'imminenza dello scontro. Sempre alle stesso edizioni si dovette una copiosa serie di manifesti nella quale l'elemento Fluxus era preponderante, e soprattutto la breve esistenza una rivista, "Bit", che se per un verso si segnalava con accattivanti soluzioni grafiche, per l'altro documentava in sodo evidente i contraccolpi che al mondo fin troppo tranquillo dell'arte recavano i tempi nuovi. Fu lì che venne pubblicata una mappa storica del rock intorno alla quale si dovettero contare vari storcimenti di naso sia fra i soloni dell'arte che fra quelle frange moraliste che già inquinavano il movimento di rivolta.

 

(1983)

 

 

 

 

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