Martino Oberto POESIA VISIVA A GENOVA di Sandro Ricaldone In un "libro bianco" apparso
quasi postumo al margine di quegli anni '60 in cui si era dipanata la vicenda
breve, in qualche modo imprevista, della sua unica avanguardia autoctona,
Genova viene contraddittoriamente descritta come città seria - in quanto
impermeabile alle mode culturali - ed ottusa, perché indifferente ad ogni
innovazione ed apertura, anche (appunto) seria. Quale che fosse la reale
situazione complessiva del polo debole del triangolo industriale - già allora
economicamente asfittico nonostante l'ancora intensa attività portuale e la
forte presenza di un'industria di stato che, con i progetti di Konrad
Wachsmann, si baloccava con un prototipo di città futuribile - un esame
retrospettivo non sembra dar credito alle doglianze, pur fondate, di Lino Matti
che, in un "mini poema retorico" imprecava contro "la mummia
vestita a festa / ... / Suo malgrado produttrice di menti che uccide / se non
fuggono oltre appennino" o di Rodolfo Vitone che denunciava invece
l'inesistenza d'una politica culturale. La varietà delle intraprese rammentate,
nel suo intervento, da Germano Celant, allora critico in erba, "la rivista
“Tool”, “Anaeccetera”, la Società di Cultura, la Galleria del Deposito e la
Bertesca, alcune iniziative dell'editore Silva" cui potrebbero affiancarsi
il Museo Sperimentale promosso da Eugenio Battisti, il lancio del “Marcatré”
edito da Vitone e diretto ancora dal vulcanico Battisti; la pubblicazione di “Trerosso”,
diretto da Luigi Tola, di “Nuova Corrente”, propugnatrice, con Piero Raffa, di
un rinnovamento semiotico dell'estetica; le attività di altre gallerie come “La
Polena” e di spazi come “La Caràbaga”, disegnano infatti un quadro
insolitamente animato in cui non mancava chi - come Martino ed Anna Oberto -
tracciava una convinta apologia della marginalità, indicando nella chiusura
verso il circuito dell'industria culturale, un'opportunità paradossale,
"che fonctiona nella misura in cui produce monstruos, pilota idee"
facendo dell'ambito off kulchur l'ombelico del mondo. Martino Oberto E, in effetti, qualche "scherzo
d'anticipo" sembra esser stato giocato, in un arco di tempo relativamente
breve (il decennio che corre fra il 1955 ed il 1965), alle neoavanguardie che
si apprestavano ad entrare in campo. Soprattutto, però, l'anticipo sembra esser
valso a fondare una possibilità alternativa espressa in una pratica di poesia o
di scrittura "visuale" - termine proposto nel 1965 in antitesi al
visivo/immaginale dei fiorentini - ma con implicazioni di carattere teoretico
forse ancora non valutate appieno, benché prefigurino talune modalità del
concettualismo. In questo senso, centrale risulta
l'operazione ana condotta da Martino Oberto (OM), in collaborazione dapprima
con Anna Oberto e Gabriele Stocchi, poi - anche - con Ugo Carrega, Corrado
D'Ottavi, Felice Accame, Giampaolo Barosso, Carlo Piola Caselli, Luciano
Caruso, attorno alla rivista (che, nella sua veste di "esercizio di
lavoro", viene a configurarsi come opera in fieri) pubblicata in dieci
numeri fra il 1959 ed il 1971. L'esperienza di Oberto, anche per la
matrice non letteraria ma pittorica e filosofica del suo approccio, si stacca
sin dall'origine dalle proposte formulate nell'immediato dopoguerra da Isou,
con il Lettrismo (di cui pure dar con Anna, su Il Caffè di Vicari, la prima
sintetica presentazione italiana), e dalla poesia concreta del gruppo
Noigandres. In effetti, mentre la poetica lettrista scopre nella lettera
anzitutto un materiale fonetico, che solo in un secondo tempo si riveste
d'implicazioni ipergrafiche ed infinitesimali, ed il concretismo brasiliano
assume la lezione di Pound in un'ottica prettamente strutturale, l'interesse di
Oberto - che già con “Ana (anaestesia)”, un olio su tela del 1951 realizzato
velando di bianco un fondo grigio, aveva realizzato un vero e proprio
azzeramento dell'espressività pittorica - si concentra sull'equivalenza tra
significato e segno visivo, escludendo ogni componente fonica e la stessa
dimensione compositiva. Sulla suggestione esercitata dagli esempi di Cummings,
Joyce (da cui prendono le mosse opere fondamentali come “e.e. cummings 277”,
del 1955, ov'è applicata la tecnica del color-tubetto, e “Ulisse: ineluttabile
modalità del visibile... (Joyce)”, del 1959, nel quale il testo sprofonda nella
stratificazione della pittura) prevale una tensione - derivata, in parte,
dall'influsso di Wittgenstein, precocemente studiato - ad astrarre il segno
grafico, ad abolire il riferimento, come processo per attingere ciò che non può
essere rappresentato pensieralmente, per toccare "il pensiero senza
immagini / IMPENSATO". Ugo Carrega Quest'esito non viene tuttavia raggiunto
semplicemente tramite un automatismo irriflessivo o da un'esecuzione attimale
(quale potrebbe realizzarsi nell'applicazione diretta del colore dal tubetto
sulla tela) bensì attraverso un percorso d'ana/lisi che consente in definitiva
all'autore, wittgensteinianamente, di gettar via la scala dopo esservi salito,
di "identificare il reale con la proiezione e la possibilità del
reale" (Ballerini), di costituire l'opera come opera virtuale, spazio in
cui si attua "la finalizzazione di qualsiasi elemento". Nel quadro dell'interesse semantografico
di Ana eccetera (poi Ana etcetera) si orientano le prime prove di Anna Oberto,
con il montaggio interlinguistico de “La question S.”, giocata fra il testo di
Alain Jouffroy ed il segno di Scanavino (1963), e con il puntuale, affascinante
incrocio analogico fra le connotazioni visive d'un'opera di Otto Piene ed un
testo di Jean-Pierre Duprey (1965). Declinazione destinata ad innervarsi, nel
successivo decennio, d'afflato utopico con i lavori sul tema della "città
ideale" e con le scritture al femminile, ove la riflessione sulla condizione
della donna si connette all'intento di "segnificare la propria
identità", in un duplice registro bio/grafico, presente anche nella
successiva serie dei lavori centrati sui radicali linguistici e le scritture
elementari del figlio Eanan. Da segnalare, per ciò che concerne la Oberto,
anche l'attività organizzativa e di presentazione critica, nel cui ambito
introduce fra l'altro l' "Esposizione internazionale operatrici
visuali" svoltasi a Milano, al "Centro Tool", nel 1972, la
prima, a quanto consti, fra le manifestazioni di questo tipo. Rodolfo Vitone Legati invece alla proposta formulata
Martino Oberto con "uno specifico letterario (e filmico)" gli esordi
di Giampaolo Barosso con un racconto, Un incidente analogo, realizzato nei modi
del cut-up e di Corrado D'Ottavi con il collage, intermezzato da
excerpta linguistici, slogan e frasi di riporto, di “Stima di colori solidi” (“Ana
eccetera” n. 3, 1960). Mentre quest'ultimo proseguirà - dopo i
primi, felicissimi esiti - una ricerca incentrata, con intenti demistificatori,
sull'immagine mediale, talvolta con inserti oggettuali, d'estrazione meramente
poetica, fonetica anzi (evento singolare nel contesto genovese) sono le prime
prove di Ugo Carrega, con le sonorità romanze di eini, documentate nell'antologia
della poesia sperimentale italiana curata da Anna Oberto per “Phantomas”
(apparsa nel 1964, ma già approntata nel '62) e quindi coi
"babebismi" ancora sonori, dai quali trapasserà, dopo l'importante
uscita teorica dedicata al tema del "Rapporto fra il poeta e il suo
lavoro" (“Ana etcetera” n. 6, 1965) al tratto compiutamente visuale
dell'opera apparsa in “Tool”, il bollettino da lui stesso creato nel 1965 con
Matti e Vitone reduci dall'esperienza di “Marcatré” raccogliendo contributi
diversi (Barosso, Felice e Vincenzo Accame, Mignani, Martino Oberto con la “Abstract
letter from a young philosopher”, e l'emergente Spatola). Se la pulsione attivistica di Carrega
doveva spingerlo ad inscenare, nell'arco d'una decina d'anni, non meno di
trenta "esperimenti di poesia", astratta, permutazionale, meccanica,
accumulativa e via dicendo, fondamentale doveva risultare, nel tempo a venire,
lo schema teorico della "scrittura simbiotica", pubblicato su “Tool”
n. 2 (21.12.65) in cui l'individuazione degli elementi costitutivi della
pagina: fonetico, proposizionale, lettering, segno, forma, colore, apre
ad una poetica essenzialmente pragmatica, e come tale in certo modo unificante,
che gli consentir di collocarsi - anche in termini organizzativi e di proposta,
con il "Centro Tool" ed il "Mercato del Sale" - al centro
della vicenda della "Nuova Scrittura" negli anni '70. Lino Matti Con “Tool” esordiscono altri operatori
come Vincenzo Accame (ligure di residenza gi milanese, fattosi in seguito
storico delle correnti poetiche visuali) nel cui lavoro compare, sin dagli
inizi, una raffinata qualità compositiva, sovente articolata modellando la
materia verbale secondo impianti schiettamente geometrici e Rolando Mignani, i
cui esordi si collocano sotto il segno di Cummings per caratterizzarsi poi in
senso più accentuatamente materico con l'utilizzo di supporti "anti-graziosi"
e di elementi simbolici. O - ancora - come Liliana Landi, le cui capacità
grafiche si piegano al sondaggio di tematiche psicologiche e biografiche. Dell'impresa di “Tool” sono
corresponsabili, con Carrega, Lino Matti e Rodolfo Vitone, il cui nome è legato
all'esperienza del "Gruppo di Studio", l'altro elemento portante
della situazione verbo-visiva genovese. Preannunciato dalle vicende del
"Portico", club culturale di Sampierdarena, dove Luigi Tola espone
nel 1959 (con qualche anticipo, sembra, tanto sulle prove di Stelio Maria
Martini a Napoli quanto sui Novissimi) le sue "poesie murali"
composte, secondo una tecnica divenuta poi canonica, di ritagli di giornali e
riviste, il "Gruppo di Studio" si costituisce, verso la fine degli
anni '50, con l'aggregazione spontanea di artisti di varie discipline, nel cui
ambito il dibattito sul marxismo e sull'estetica, influenzato dalle
formulazioni filosofiche di Galvano Della Volpe, doveva determinare una
tendenza a produrre nuove articolazioni del rapporto fra linguaggio e mondo, e
- di conseguenza - il sovvertimento delle categorie e delle tecniche artistiche
tradizionali. Il varco offerto, in questa direzione, dal
collage d'immagini e d'excerpta verbali, viene così esplorato da Tola,
Danilo Giorgi e Guido Ziveri secondo modalità contestative, con l'assemblaggio
d'un surplus martellante di messaggi verbali e d'immagini, in un rapporto
d'assonanza con la produzione dei gruppi napoletani e fiorentini (ai quali lo
spazio espositivo del gruppo, "La Carabaga", dedicherà costante
attenzione nel quadro d'un interesse per l'espressione verbo-visiva in cui
rientrano la presentazione della prima personale italiana di Jiri Kolar, varie
collettive di poesia visiva, ed i contributi apparsi su “Trerosso”, la rivista
del gruppo). Rolando Mignani Diverse le posizioni di Matti e di Vitone,
caratterizzata l'una da un predominio del lettering e da una messa in pagina
equilibrata; portatrice, la seconda, d'un tratto oggettuale tipicamente pop, in
cui tuttavia s'affaccia - nella frequente frammentazione della lettera-icona e
nell'incompletezza dell'immagine, mutuata da un orizzonte tecnologico - un
accenno decostruttivo ante-litteram. Al modello tecnologico, seppure
sintomaticamente ribaltato, si riporta anche l'invenzione di Miles (che dal
1966 partecipa all'attività del Gruppo di Studio) dell' "ideodotto",
definito da Corrado Maltese "flusso di cose che si fanno immagini e idee e
di immagini che si fanno idee". A ridosso del '68 (un evento, dice Tola,
che ci ha colto di sorpresa perché in qualche modo ci pareva avesse lo stesso
carattere dell'esperienza che avevamo attraversato nel decennio precedente) il
dinamismo del movimento si esaurisce: Carrega si trasferisce a Milano, la “Carabaga”
chiude, “Ana Excetera” si avvia alla conclusione. Negli anni '70 comincia la revisione
storica del fenomeno con "La visione fluttuante" curata da Edoardo
Sanguineti all'Unimedia, che l'anno seguente ospiterà "La scrittura",
mostra itinerante allestita da Filiberto Menna, Italo Mussa e Lamberto
Pignotti. A queste manifestazioni fanno seguito, nel 1980, al Teatro del
Falcone, "Scrittura visuale a Genova", proposta da Anna Oberto e poi
ancora, nel 1990, al Museo di Villa Croce, "Corrado D'Ottavi e la ricerca
verbo-visiva a Genova". Al di là, però, delle sistematizzazioni
critiche, di cui l'antologica di Anna Oberto a Villa Croce (ottobre-novembre
1993, introdotta da Sandra Solimano) costituisce un esempio ulteriore, e del
rilancio della tematica con iniziative della portata di "Poèsure et
Peintrie" (Marsiglia, Centre de la Vieille Charitè, febbraio-maggio 1993)
e di "Parabilia" (a cura di Viana Conti, XLV Biennale di Venezia,
1993), a riaccendere l'attenzione sono i nuovi lavori presentati da Vitone alla
Polena nel 1991, ove compaiono grandi lettere in rilievo fasciate in veline
dattiloscritte e tenuemente colorate, e da Martino Oberto l'anno seguente
all'Unimedia, con i tesi grovigli scrittorii di "Anartattack". Una
ripresa d'intensità che non s'appiattisce sulle formule del passato, ed attua
il suo scarto senza disporre, come un tempo, d'una prospettiva lucidamente
disegnata. Ma, forse, come nota OM citando Talleyrand, "On ne va jamais aussi
loin que lorsqu'on ne sait pas ou est qu'on va ...". Vincenzo Accame (1995) >>> TORNA ALLA PAGINA
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