Associazione Uomo-Vegetale

(foto di Letizia Tazzer)

 

 

 

IL MUSEO ATTIVO DELLE FORME INCONSAPEVOLI

CLAUDIO COSTA E L'ESPERIENZA DELL' O.P. DI GENOVA-QUARTO

di Sandro Ricaldone

 

L'intero percorso artistico di Claudio Costa si è svolto sotto il segno del work in regress: un cammino a ritroso verso l'origine dell'uomo e delle sue manifestazioni estetiche.

Nell'inoltrarvisi, l'artista ha seguito dapprima (con le serie delle Craneologie e di Evoluzione-Involuzione, realizzate attorno al 1970) una pista rettilinea, poi abbandonata per dedicarsi - trasversalmente - all'esplorazione di talune zone di confine (la cultura materiale contadina, l'alchimia, la pittura rupestre preistorica, le persistenze arcaiche della civiltà africana) in cui avvertiva più intenso il manifestarsi dell'impronta primigenia. Per converso, per quanto "senza progetto" fosse la sua erranza, dispiegata - come ha scritto Giorgio Cortenova - "nella congiunzione di un'oscurità vitale, carica di fermenti disseminati fuori traiettoria", Costa aspirava in qualche modo a stabilizzarla, fornendole - se non un centro - un perimetro (o un luogo) che la rendesse identificabile.

Di qui il ricorrere del riferimento museale nella sua opera (significativamente il lavoro esposto alla Biennale di Venezia nel 1986 si intitolava: Diva bottiglia (per un Museo dell'Alchimia)) e nella sua attività di studioso e di organizzatore, marcata dalla creazione nel 1975, insieme ad Aurelio Caminati, del Museo di Antropologia attiva a Monteghirfo, sull'Appennino ligure, e del Museo attivo delle forme inconsapevoli nell'ex Ospedale Psichiatrico di Genova-Quarto, fondato nel maggio 1992 con Miriam Cristaldi, Luigi Maccioni, Antonio Slavich e Gian Franco Vendemiati.

Per quanto la premessa induca a concludere diversamente, nell'ingresso di Costa nella struttura psichiatrica diretta da Antonio Slavich (già collaboratore di Franco Basaglia a Trieste) la casualità è stata preponderante. L'esigenza di reperire spazi di lavoro adeguati lo avevano portato, con altri artisti (Carretta, Colombara, Esposto, Merello, Vitone) a stringere con gli enti locali contatti da cui era scaturita la possibilità di inserirsi, come autonoma associazione, nell'ambito del Centro Culturale del Levante, che già aveva ottenuto la disponibilità di un padiglione non più in uso.

Nel corso dei lavori di adattamento degli ambienti (che in seguito avrebbero ospitato i laboratori di arteterapia) prese corpo il progetto di allestire una serie di mostre con opere da realizzarsi in rapporto con le specificità del luogo da parte dei membri dell'associazione (denominata Spazio Paradigma) e di artisti loro ospiti. Il ciclo programmato si svolse fra il maggio 1984 ed il giugno 1985 e venne documentato l'anno seguente nel volume-catalogo Spazio Paradigma, spazio di confine, suscitando una sfavorevole reazione da parte di Slavich, al quale nella premessa degli artisti e nel (mio) testo introduttivo parve di cogliere un impegno volto più a riflettere l'aura inquietante della follia che a dissiparla in "una epifania lietamente e quietamente trasgressiva".

Chiusa su queste note l'esperienza collettiva (ma non del tutto omogenea) dello Spazio Paradigma, Costa fu il solo a mantenersi presente nel Presidio di Quarto, prendendovi definitivamente studio e lavorando nell'atelier di Arteterapia. L'idea del Museo attivo delle forme inconsapevoli veniva intanto gradualmente a precisarsi, preceduta dalla fondazione dell'omonimo Istituto e stimolata sia dalla raccolta di un imponente materiale sia dall'intervento di artisti invitati nei laboratori, sia - infine - dalla scoperta di un artista-paziente di grande qualità: Davide Mansueto Raggio.

Rispetto alle più note raccolte d'art brut, come la Collezione Prinzhorn dell'Università di Heidelberg, o quella - ora a Losanna - costituita dalla omonima compagnia animata da Dubuffet, il Museo genovese, inaugurato nel maggio 1992, attua uno scarto deciso. "La nostra scelta di far convivere, negli spazi del Museo, senza soluzione di continuità, le espressioni artistiche di persone affette da handicap mentali insieme ad opere di artisti professionisti, è - scrivevano allora i promotori - una scelta radicale che riveste, riteniamo, una sua originalità".

In effetti le ragioni che potevano indurre le avanguardie espressioniste a legittimarsi scandalosamente collegandosi alla pretesa immediatezza dell'arte infantile e dei malati di mente o che muovevano Dubuffet a contrapporre le creazioni dei marginali all'asfissiante cultura degli artisti professionali hanno subito un processo di svuotamento. Secondo Vittorino Andreoli (lo scopritore di Carlo) "oggi non ha più alcun senso voler distinguere culturel e non-culturel. Brut deve rimanere un termine del passato come naif, come autre".

Il testo programmatico redatto a più mani da Costa, da Miriam Cristaldi e Luigi Maccioni opera una sorta di ribaltamento, superando la distinzione fra arte colta ed arte psicopatologica, nella linea tracciata dall'osservazione di Michel Thévoz per cui "l'arte non è mai normale". "Se nel fare artistico esiste una consapevolezza sulla forma e sul contenuto che l'artista si propone di raggiungere, nell'opera - si afferma - esiste anche un quid che sfugge all'artista ... la parte inconsapevole, il suo mondo interiore".

L'argomento, solo genericamente accennato, è però debole. Il lavoro filtrato dall'atelier, salvo casi sporadici, d'interesse contenuto. Critici influenti come Gianfranco Bruno e Germano Beringheli hanno attaccato con durezza l'operazione sostenendo l'uno che se "il disegno è un potente strumento di autocoscienza" non per questo "i disegni delle persone malate sono senz'altro opere d'arte", l'altro dichiarando l'illegittimità dell'accostamento fra "ciò che è effetto di estrema consapevolezza espressiva e ciò che è risultato di un insieme di concorrenze casuali, sia pure indirizzate verso l'artistico e l'estetico".

Le mostre successive, dove "artisti portatori di handicap" e professionisti venivano parimenti accostati, non hanno risolto l'impasse. La repentina scomparsa di Claudio Costa, nel 1995, ha poi privato l'iniziativa del suo primo animatore. Ma le attività continuano, con una serie di interventi di giovani artisti - coordinati da Margherita Levo Rosenberg e Miriam Cristaldi - sull'incidenza di determinati elementi simbolici nel loro operare. E, al di là dell'aver nuovamente posto, con passione, un problema irrisolto, l'identificazione del talento di Raggio, con le sue Furie stecchite e insieme contorte, che "nascono dal fiume e sono esseri da boscaglia in combattimento col vento e con le acque", rimane comunque un esito degno di nota.

 

(1997)

 

 

 

 

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