FLUXUS: PER
UN’ECONOMIA POETICA Più di ogni
altra avanguardia (neo o post che sia, e sempre ammesso che il termine risulti
applicabile al network “liquido” avviato da Jurgis/George Maciunas) Fluxus si è
sottratto all’esercizio teorico, definendosi per lapidarie antitesi e negazioni.
La sua piattaforma, volutamente frammentaria, non presenta riferimenti diretti
alla sfera economica - le analisi in materia di Henry Flynt, figura peraltro
anomala nel panorama fluxiano, verranno a distanza di anni - sebbene s’innesti
su una spiccata propensione sociale. La differenza con altre esperienze coeve o
di poco antecedenti appare evidente: con il Lettrismo, che Isou si cura quasi
subito di dotare, con il primo volume del Traité
d’économie nucleaire (1949), di un’articolata riflessione in materia,
incentrata sulla condizione marginale della gioventù e sulla elaborazione di un
programma che desse spazio al suo naturale dinamismo, e – più ancora – con l’Internazionale
situazionista dove l’opposizione rivoluzionaria nei confronti dell’economia
capitalistica viene a saldarsi con la critica della vita quotidiana e degli
apparati dello spettacolo. Al di là
della dimensione teorica, sul terreno esistenziale nella cerchia di Fluxus le
preoccupazioni finanziarie erano ben presenti (“gli attori parlano di teatro, i
medici parlano di ospedali e gli artisti parlano di denaro”, diceva Emmett Williams)
ma l’atteggiamento basato sull’“importanza della non-importanza”, sul ruolo
centrale del gioco e sulla negazione delle concezioni auratiche dell’arte non
poteva che indurre, nel campo dell’arte e del suo mercato, esiti
controcorrente. Mentre usualmente l’arte non solo si sforza di apparire
“complessa, pretenziosa, profonda, seria, intellettuale, ispirata” ma deve
configurarsi “come una merce per assicurare un’entrata all’artista” e per questo,
secondo uno schema già evidenziato da Adam Smith e Thorstein Veblen, “è fatta
per apparire rara, limitata e perciò accessibile soltanto all’elite sociale e
alle istituzioni”, il valore dell’art-amusement
Fluxus “deve essere contenuto attraverso la produzione illimitata, di massa”;
deve essere “acquisibile da tutti e potenzialmente prodotto da tutti”. Certo
questa presa di posizione, che presiede alle edizioni delle Fluxus Year Boxes e dei Fluxkits, distribuiti in maniera
indipendente mediante i Fluxshops e
il servizio postale, ha un precedente diretto nei “multipli” promossi con
finalità analoghe da Spoerri con le edizioni MAT (1959) e in quelli realizzati
dalla Galerie Denise René a partire dal 1962 (su un’idea di Agam e Tinguely
risalente al 1955), ma in concreto la peculiare natura dei lavori, non firmati
né numerati, e lo stesso packaging,
marcano una distanza radicale dalle opere moltiplicate degli artisti concreti e
cinetici. Anche l’impianto
collettivo insito in questo tipo di raccolte, cui corrisponde in sede
performativa la forma del festival ed il frequente scambio dei ruoli, contribuisce
a implicarli in una dimensione radicalmente autonoma perché rispondente ad una
visione che comporta “il rigetto dell’idea che l’individuale possa avere
un’identità separata dal rapporto sociale” (Owen F. Smith). Attraverso la loro
caratteristica modalità ludica viene infatti proposto “un modello imperniato
sulle relazioni piuttosto che sulla comunicazione di separati frammenti
d’informazione”, che mira così a superare la tradizionale barriera fra autore e
fruitore. La stessa
articolazione del gruppo si presenta spiccatamente relazionale e collaborativa,
attitudine – questa - favorita non soltanto dall’espe-rienza egualitaria della
classe di condiscepoli (molti degli esponenti di Fluxus avevano condiviso gli
insegnamenti di Richard Maxfield e John Cage nella New School of Social
Research di New York) ma dallo spirito cooperativistico che Maciunas mutuava
dal suo retroterra lituano: Almus Salcius, l’amico con cui aveva aperto nel
1961 la AG Gallery in Madison Avenue, a New York, era il figlio dell’economista
Petras Salcius, presidente dell’unione delle cooperative del paese baltico
negli anni ‘30. Ed è secondo i principi cooperativistici che Maciunas avvia la
sua intrapresa economica di effettivo rilievo (le vendite dei Fluxkits, a suo dire, erano risultate
sostanzialmente nulle): la trasformazione di vecchi edifici industriali nel
quartiere newyorkese di SoHo in studi-abitazioni, Fluxhouses per artisti. Iniziativa estremamente travagliata (poiché
le norme urbanistiche non consentivano l’uso residenziale, il che diede luogo a
una disputa con il General Attorney e portò Maciunas a temere una persecuzione
poliziesca), non remunerativa (i lofts
erano assegnati a prezzo di costo) e amministrativamente confusa (Maciunas
manovrava i fondi delle diverse cooperative impropriamente, come una sorta di cassa
comune) ma in ultimo coronata da un paradossale successo che, sulla scia degli
artisti e delle gallerie, ha portato nella zona una popolazione facoltosa e i
negozi dei brand più famosi, da Prada
ad Apple. Maciunas, con obiettivi limitati ma realistici, grazie al suo lavoro
frenetico, pur perdendo per via il sostegno di fondazioni e fondi federali, riesce
laddove il progetto di Utopolis (1961)
che doveva sancire la realizzazione dell’Urbanisme
unitaire, in virtù di un accordo tra i situazionisti, rappresentati da Jorn,
e il “Centro Arti e Costumi” dell’industriale Marinotti per la costruzione di
una nuova città, era invece fallito. Nondimeno,
su un piano generale, il ragionamento che un altro protagonista di Fluxus,
Robert Filliou, svolge in quello stesso arco di tempo, contrapponendo
all’Economia di prostituzione, che ci costringe a vendere noi stessi,
l’Economia poetica, elaborata “a partire dalle motivazioni e dai valori
autentici dell’artista: l’innocenza e l’immaginazione da una parte, la libertà
e l’integrità dall’altra”, sconfina anch’essa nell’utopia. Così l’opera di
Beuys, antico membro di Fluxus, Wirtschaftswerte (Valori economici, esposta nel 1980 allo SMAK di Gent), che allinea
scatole e barattoli di cibo provenienti dall’allora Repubblica Democratica
Tedesca, assunti come simboli di semplicità e frugalità, su scaffali di metallo
contornati da ritratti borghesi dipinti entro il tempo di vita di Karl Marx, continua
– dissolto lo scenario geopolitico in cui è stato concepito – a mettere a fuoco
il dilemma dell’arte del ‘900, fra ricerca di essenzialità e consumo; fra istanze
rivoluzionarie e l’incombente dominio dell’economia. (Alfabeta 2, aprile 2012) >>> GLI ANNI '50 E
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