CLAUDIO COSTA

 

Entro un orizzonte prevalentemente antropologico (ma aperto ad un ventaglio di suggestioni fortemente intrecciate: dalla paleontologia alla mitologia; dall'allegoria all'alchimia) si svolge l'itinerario artistico di Claudio Costa.

Agli esordi, nei primi anni '60, sotto il segno della ricerca dubuffetiana sull'art brut - tematica cui in anni recenti l'artista ha dato coerente sviluppo con la fondazione dell'Istituto per le Materie e Forme Inconsapevoli (1989) presso l'Ospedale Psichiatrico di Genova-Quarto - fa seguito l'esperienza formativa condotta presso l'Atelier di William Stanley Hayter a Parigi dove, a partire dal 1964, approfondisce le tecniche calcografiche ed incontra Duchamp, polo di riferimento e di confronto costante del suo lavoro, come più tardi Beuys.

Con il rientro in Italia, dopo il maggio parigino, Costa inizia ad utilizzare materiali estranei alla tradizione artistica, come grafite, amido, colla di pesce, acidi. Se l'impiego di queste sostanze allo stato puro lo avvicina, sotto un certo profilo, alle ricerche di ambito poveristico, la diversa inclinazione di fondo del suo lavoro, dapprima latente, diviene esplicita con la pubblicazione (1972) del volume Evoluzione-Involuzione (il tempo trasportato, lo spazio perduto), ove definisce i termini di un'arte antropologica volta alla riscoperta dell'identità umana.

In questa fase il suo lavoro, pur assumendo modalità tipiche dell'indagine scientifica (nella ricostruzione dell'uomo primitivo attraverso l'accostamento sequenziale di teste, mani, piedi, dall'Homo Sapiens-Sapiens all'Australopiteco, realizzate in terracotta dipinta), inizia ad evidenziare la caratteristica tendenza ad articolarsi in cicli tematici di ampia portata. Inoltre l'inversione del procedimento rispetto alle metodiche dei paleontologi, che muovono dall'antico per giungere al recente, contiene in nuce la successiva teorizzazione (1977) del Work in Regress.

Nel periodo successivo, che vede la partecipazione di Costa alle principali rassegne europee dedicate all'arte d'ispirazione antropologica, quali Spurensicherung (Amburgo 1974) e Archeologia degli Umani nell'ambito di Documenta 6 (Kassel 1977), si precisa anche il rapporto con l'oggetto, che - in un primo tempo soprattutto ricostruito, poi variamente assemblato od alterato - acquisisce un ruolo primario nell'operare dell'artista.

Al di là degli influssi di ascendenza dadaista (Schwitters) o surrealista (Cornell), l'attenzione si calibra sulle valenze culturali e sulle potenzialità evocative (in direzione simbolica quanto metaforica) del reperto, sottoposto ad un processo non di straniamento ma - come ha osservato Enrico Pedrini - di ripaesamento per cui si giunge ad erigerne l'habitat in Museo (Museo di Antropologia Attiva di Monteghirfo, 1975).

"Costa non lavora servendosi semplicemente del già fatto come nel ready made classico, ove cioè l'oggettualità", scrive Enrico Crispolti, "serva al trasferimento dissacratorio di esteticità sull'oggetto comune, modificato o meno. Ma lavora piuttosto sul già vissuto recuperato nella sua capacità appunto magico-memoriale, contro l'intenzionalità di mera costruzione di un manufatto estetico".

Di qui il naturale e vieppiù profondo coinvolgimento, nel corso degli anni '80, nelle dimensioni mitopoietiche ed alchemiche, cui fa riscontro l'acquisizione di una maggior complessità compositiva, anche a livello spaziale, mentre si amplifica l'uso dei materiali, in particolare con la scelta di metalli, come nel ciclo delle I colori e i segni delle ruggini (1989) e di maschere tribali, anche in rapporto ai contatti con gli elementi arcaici della cultura africana, sperimentati in soggiorni di studio e di lavoro in Kenia, Uganda e Senegal, e trasfusi nel ciclo dei Lavori africani (1990).

 

s.r.  (1994)

 



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