BORDERLINE
UN MODELLO FRA PARENTESI

Intervista a Claudio Costa
a cura di Sandro Ricaldone

 

CC - Inizierei col parlare del mio lavoro sul work in regress perché è un tema che è stato dibattuto poi molto recentemente. Le poetiche attuali, in pittura, si rifanno tutte all'idea di un work in regress, cioè ad un lavoro, in qualche modo, "all'inietro", una riproposta di cose già accadute. Come la pittura espressionista tedesca, il Novecento italiano, non so, Licini, tutte esperienze che vengono oggi riciclate, ripresentate in nuove forme. Io ho iniziato questo lavoro, che ho intitolato "work in regress", in un altro senso. Il primo accenno si è verificato nel '77, quando ho fatto una mostra nel mio studio a Genova (allora avevo lo studio in Via Frugoni). In questa mostra c'era, appunto, questa espressione, che avevo ricavato per contrapposizione dal work in progress di Joyce. Era un lavoro che procedeva, in certo modo, dal Concettuale, dalle idee del Concettuale. Ma forse è il caso di aprire una parentesi, di vedere un po' alcune mie radici. Penso - così, all'ingrosso - che due siano stati i personaggi ai quali è possibile collegare in modo preciso il mio lavoro: Uno è Schwitters, con il collage e specialmente con il Merzbau, che non è molto conosciuto anche perchéè stato distrutto. Però quest'idea che Schwitters ha sperimentato, di costruire nella sua casa una specie di castello con tutto quel che trovava, ha influenzato profondamente il mio lavoro. L'altro è Cornell, anche lui per il collage e per le sue cassette "magiche" che hanno costituito per me un sicuro punto di riferimento, anche per l'aspetto fluxus, che mi interessa molto come approccio alla relazione fra vita ed arte. Allora diciamo che quel che penso di aver messo di nuovo, di mio, è il discorso della scienza antropologica, cioè di un ritorno a considerare tutto quanto si riferisce all'uomo. In questo senso devo dire che le esperienze contemporanee che hanno inciso su di me e non sono forse chiaramente leggibili nel mio lavoro sono state l'Arte povera (proprio per i mezzi che gli artisti di questa corrente usavano, nel tentativo di presentare le cose, per quanto possibile, "nude") e, per altro verso, il Concettuale, che mi ha interessato parecchio, sebbene questo possa non risultare evidente (perché io ho satgo l'opera ridondante), e si connette all'idea, potrei dire alla concezione stessa, del work in regress. Come dicevo, comunque, il work in regress è nato in contrapposizione a Joyce, da cui è nato il work in progress. Dietro a questa prima idea c'era però il riferimento all'origine, un tentativo - cioè - di decifrazione dell'origine dell'uomo. Facevo delle ricostruzioni in terracotta, in disegno, in pittura, che partivano dalle origini dell'uomo.

SR - Partivano o risalivano ?

CC - Eh sì, diciamo più esattamente, risalivano. Infatti questo è stato proprio un lavoro "al contrario". Questo lavoro, del "Museo dell'uomo", partiva dai calchi recenti, miei, fatti sul mio corpo (oppure su quello di persone che volevano così farsi rilanciare all'indietro) e risaliva pian piano, nel corso dell'evoluzione, agli uomini primitivi o, ancor prima, a quelle forme che, del resto, non sono state ancora ben chiarite dalla scienza antropologica, paleontologica. Dunque diciamo che il work in regress è qualcosa che si riferisce all'origine. Tiene conto anche delle culture, delle culture primitive, queste sacche di esseri che sono rimaste così fuori dalle tradizioni culturali dominanti, fuori dalle cosiddette civiltà indeuropee e che hanno seguito un'evoluzione lentissima, del tutto diversa dalla nostra. Credo che queste culture primitive conservino qualcosa di magico, un qualcosa di primario che noi, tutto sommato, abbiamo perso. Credo, in altri termini, che questi uomini siano più vicini di noi all'origine e abbiano una connessione con le cose, un rapporto che conserva un'aspetto magico, o mitico, che a noi sfugge assai sovente… Allora, per riassumere nuovamente: come lavoro concettuale in contrapposizione al work in progress di Joyce; work in regress come riproposta dell'origine, certo non come quella del "buon selvaggio" di Rousseau, ma come ricerca antropologica (in fondo, un'altra componente di cui non ho parlato prima e che mi ha influenzato profondamente, è la scienza, l'idea di scienza, la scienza anche come metodo di lavoro). In terzo luogo, il work in regress è qualcosa che ci riporta al magico, al mito, al rito. Da tutto questo è iniziato un mio interesse per un fenomeno che è stato sempre molto vicino all'origine, molto vicino a teorie al di fuori della cultura ufficiale: la scienza alchemica, l'alchimia… Ora, anche in questo lavoro ci sono due aspetti: uno più concettuale, nel senso che mi interessa profondamente ricercare i testi (sebbene sia praticamente impossibile ritrovarne un significato originario, vuoi perché tradotti, vuoi perché talune definizioni hanno perduto, per noi, ogni rilievo pratico). Dall'altra parte c'è il senso della vita, cioè penso che nel mio lavoro più recente ci sia uno sforzo di includere di più la vita, la mia vita, quello di cui ritengo si dovrebbe tener conto per continuare a vivere. Allora, tutto questo finisce per coinvolgere il metodo di lavoro, lo stile di vita stesso e, di conseguenza, si può arrivare a parlare di un certo tipo di mercato, della non adesione a determinate correnti artistiche, in cui - in definitiva - sarebbe piuttosto facile inserirsi. Oggi mi trovo a considerare che il lavoro dell'artista è un lavoro lungamente solitario e che, in questo senso, gli spazi fruibili divegono sempre più ristretti; che diventa sempre più difficile mostrare in un certo modo il proprio lavoro, almeno per chi non vuole allinearsi alle mode. Secondo me è molto importante (e ce ne stiamo rendendo conto sempre meglio, anche per via di determinati eventi, mostre ed altro) considerare l'intero arco del lavoro di un artista. Altrimentiè troppo facile (per l'artista) mimetizzarsi ed entrare in canali che poi di fatto non ne riflettono la sensibilità. Allora, se prima dicevo che è difficile esporre in un certo modo, con un'ampia scelta di opere, con a disposizione uno spazio che non sia presidiato, è molto facile - per converso - entrare in "scuderie" che espongono in continuazione ma che finiscono per vincolare, in misura non trascurabile, il lavoro dell'artista. Ritengo comunque che soprattutto sia da considerare, come accennavo, la globalità dell'opera, esaminata in un lungo arco di tempo, per poter dare un giudizio di valore che sia pertinente. Credo che questo si contrapponga al fatto che il tempo, oggi, è diventato così rapido… siamo nell'era post-industriale, si parla di "post", di elettronica, di computers che operano ad una velocità inimmaginabile. Dunque il tempo in qualche modo si è accorciato. E' facilissimo prendere un aereo e girare il mondo… è solo una questione di denaro (che si può reperire, sottostando alle sue ferree leggi) e non è più un problema andare, che so, a New York, poi a Los Angeles, poi a Tokyo. Ecco, dicevo che se da una parte c'è questa velocità, questa rapidità anche di informazione, di notizie, di avvenimenti che si succedono anche istantaneamente, dall'altra parte io sento l'esigenza di avere un tempo lungo a disposizione. In questo senso parlo della mostra, per me molto importante, di Calder a Torino, che descrive l'intero arco del suo lavoro. Si vede bene che le sue cose, il suoi Mobiles, i suoi Stabiles, non sono venuti dal niente, ma hanno tutto un substrato anteriore che si legge chiaramente nell'opera completa dell'artista. Credo che oggi sia difficile esprimere giudizi sul fare degli artisti contemporanei, perché questo fare è legato alla velocità, alla continua mutazione delle cose e mi sembra che, proprio per questo, si debba usare la distanza, una distanza ironica, allontanarsi dall'immediato e cercare di giudicare le cose nel tempo, non il tempo contingente, quello che viviamo tutti i giorni (per quello molte cose funzionano… o non funzionano, però suppongo che il tempo lungo le ridurrà o le amplierà in misura considerevole…). Questa, comunque è più una riflessione di vita che una annotazione di lavoro.

Dunque, vediamo. Riprendiamo un attimo il discorso dell'alchimia… L'alchimia è una cosa che di solito alla gente fa paura, in quanto le è sconosciuta. Si pensa subito allo stregone, all'antro del "soffiatore" che cercava di produrre l'oro. L'alchimia, invece, intesa in senso filosofico, è qualcosa di assai diverso. Prima di tutto è una ricerca sull'uomo, sul inteso come potenzialità massima del sistema solare, una trasmutazione con cui l'uomo si modifica e può sviluppare le sue qualità latenti per raggiungere mete lontanissime. Questo è, in modo forse mal detto, il senso dell'alchimia. L'alchimia è una scienza feconda perché è rimasta, sempre, ai margini dell'ufficialità, delle scienze positive che sono molto più aride, prive delle intuizioni che la filosofia della tradizione ha sempre cercato di esporre ai suoi proseliti, in modo anche oscuro, labirintico, ma consequenziale. Per esempio, il fatto di ricondurre tutto quanto esiste a quattro elementi fondamentali (che sono poi anche quelli della fisica aristotelica: terra, acqua, aria, fuoco) dal punto di vista artistico è molto stimolante. Il fatto che esista un elemento terra che prescinde dal suolo, dall'argilla, che si unisce e nel contempo si contrappone agli altri elementi, che è latente in ogni cosa, giacché non si può immaginare un oggetto composto solo di terra, è - dal punto di vista del lavoro - qualcosa di assolutamente affascinante. E poi bisogna sapere che il fuoco è due volte più rarefatto dell'aria, tre volte più mobile e quattro volte più attivo; che l'aria è due volte più attiva, tre volte più rarefatta e quattro volte più mobile dell'acqua; che l'acqua è due volte più attiva della terra, tre volte più rarefatta e quattro volte più mobile. Così il fuoco ha lo stesso rapporto con l'aria che l'aria ha con l'acqua e l'acqua con la terra e, reciprocamente, la terra ha con l'acqua, l'acqua ha con l'aria e l'aria col fuoco… Riesaminando il mio lavoro sulla base di parametri alchemici, mi sono reso conto che, per un certo periodo, ho agito esclusivamente sull'elemento terra: esisteva, per me, un fondo che era sempre opaco, consistente, sostegno per altre cose. Su questo elemento base ho lavorato a lungo. Recentemente credo di essere entrato nell'elemento acqua, sempre però tenendo conto di questa non divisione degli elementi (perché come ho detto non si può parlare di acqua a prescindere dalla terra). Ma ho ormai nella mente l'idea degli elementi che sfilano uno dopo l'altro: ho fatto tutto questo lavoro sulla terra e ora sto entrando nell'acqua, che mi è molto congeniale, mi gratifica in pieno. L'acqua che diventa terra, il delta del fiume, l'estuario di un torrente, le paludi, sono cose che fanno lavorare intensamente la mia fantasia. Dunque work in border ora, un lavoro sulla borderline, la linea di passaggio (in psichiatria questa espressione viene impiegata per definire il limite tra normalità e follia) tra l'elemento terra e l'elemento acqua, dove l'acqua - non dimentichiamolo - è due volte più attiva, tre volte più rarefatta, quattro volte più mobile rispetto alla terra… Più tardi potrà esserci (o forse no) l'aria, il fuoco. E' in questo senso che mi confesso debitore dell'alchimia; invece l'alchimia intesa come fabbricazione dell'oro è altra cosa.

SR - E' un'altra cosa se intesa letteralmente, facendo attenzione soltanto ai suoi aspetti materiali, ma esta comunque interpretabile come un'allegoria come un discorso ermetico, che concerne in realtà la mutazione dell'uomo, una sorta di ascesi gnostica. A questo riguardo, vorrei che tu sviluppassi quel ragionamento che avevi abbozzato nel corso del dibattito "Umano/Post-Umano", sull'artista, sulla sua trasfigurazione nell'opera.

CC - Creo che questo discorso sia stato indagato in modo molto profondo da Artaud, laddove parla del "Corpo glorioso". C'è nell'opera di Artaud un qualcosa di profondamente religioso, una tensione continua a superare il mondo contingente. Secondo me questo è veramente ciò che muove l'arte nel suo farsi. L'artista è un essere, una persona che vive per l'immortalità. Entra nell'immortalità con la sua opera e, in qualche modo, fatte le debite proporzioni, rinasce. Rinasce continuamente nell'opera. Riparlando allora d'alchimia, gli alchimista riuscivano veramente a fare cose che a noi possono apparire miracoli. Una dei miracoli che sono stati compiuti non solo da Cristo ma da Buddha, Bodhisattva eccetera (anche nelle religioni orientali, come in quelle degli indiani d'America e in molte altre c'è quest'aspetto) è la resurrezione del corpo. Questo era, per l'adepto, il massimo grado di riuscita, di perfezione… La morte e la resurrezione. Ora, nella religione cristiana, cattolica, è spiegato che questo accadimento di Cristo è la sua cosa più importante, ossia: non è il fatto di esser stato crocifisso, di aver molto sofferto (che poi la religione ha utilizzato per certi fini, come la penitenza ecc.) ma è il rinascere col corpo ad essere veramente straordinario. Cristo era un adepto degli Esseni, una setta che viveva su un monte vicino alla Galilea. Lui è stato con loro e da loro ha appreso determinate cose che Pitagora, e con lui tutta la tradizione esoterica di un certo tipo, già conosceva. Il fatto fondamentale è la resurrezione. Io credo che l'artista attui, possa attuare questo non attraverso la tradizione alchemica, perché è impossibile oggi arrivare a certe cose (forse perché ci stiamo allontanando a velocità folle dall'origine del mondo) ma attraverso l'opera… L'opera permette all'artista di reincarnarsi continuamente. Nel momento in cui vediamo un lavoro di Picasso e parliamo di Picasso o dei grandi maestri, in un certo modo avvertiamo la loro presenza attorno all'opera. Si potrebbe dire che nell'opera è racchiuso il corpo immateriale. E' l'essenza. Questo per me è uno degli aspetti trascurati ma basilari che stanno dietro al fare arte. L'uomo, certi uomini, fanno arte per potersi reincarnare… Ma non è semplice parlarne e poi non sono ancora molto preparato… Se io identifico oggi le opere d'arte con l' "Opera regia", l' "Opus" degli alchimisti, faccio questi traslati perché sento che, per certi versi, un po' la stessa cosa, dovrebbe esserci la stessa tensione, almeno per qualcuno. Ma si deve andar leggeri con questi discorsi, perché si rischia di venire fraintesi. Questi fatti riguardano una particolare iniziazione, riguardano il morire al mondo sensibile per rinascere col "Corpo dell'arcobaleno" (il "Corpo glorioso") e allora quando sei veramente come un arco nel cielo, coi piedi nella pentola di quell'oro che non è aurum vulgi e la testa è tutta liberata, si sente che si è come rinati, rinati profondamente, come dal di dentro, come da dentro tutto il tuo essere, che diventa un essere totale, un essere al di fuori del tempo e dello spazio contingenti e allora tutto dura in un altro tempo e in un altro spazio, il corpo diventa vibrante, così vibrante che quando muore resta questa vibrazione, questo desiderio di essere come un diapason, un diapason che continua a risuonare, che canta in eterno.

 

(frammenti di una registrazione del 29/9/1983)

 

 

 

 

 

 

 

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