di Sandro Ricaldone I - Amburgo-Parigi. L'escalation
dell'interesse per Cobra prosegue con una intensità che sembra - come ha
scritto non molto tempo fa' Jean-Clarence Lambert (v. "La constellation
Cobra", Art Press n. 36) - meritevole di analisi sociologiche, giacché le
ripercussioni della vicenda di questa "Internationale des Artistes
Experimentaux" (prescindiamo qui ovviamente dall'opera successiva dei suoi
diversi protagonisti) sono venuti a dislocarsi, attraverso il Gruppo Phases, il
M.I.B.I. e la Internationale Situationniste in aree la cui influenze sugli
accadimenti artistici internazionali non si è esercitata che per vie indirette. Lo stesso scenario internazionale, oggi in
apparenza così propizio a quella sorta di figurazione selvaggia che costituisce
uno dei tratti più evidenti (forse più esteriori) di Cobra, si rivela in realtà
assai distante dalle tensioni culturali (e, perché no? ideologiche) che ne
sostanziavano il tentativo. L'immagine riduttiva che di Cobra si è
andata accreditando nel corso degli anni (focalizzata esclusivamente sui tratti
di vitale ripresa di un orientamento istintuale e primitivista - peraltro non
fine a sé stesso, bensì assunto come linguaggio espressivo teso
all'universalità - di spontaneità gestuale e di intensità cromatica esasperata)
induce infatti a trascurare le radici surrealiste del fenomeno, che, al
contrario, come sottolinea Edouard Jaguer in un recente scritto intitolato
"Le moment Cobra et le Surréalisme", andrebbero riscoperte ed
approfondite. L'impronta dell'esperienza surrealista è
infatti rintracciabile non soltanto nel gruppo belga dei
Surréalistes-Revolutionnaires, legati, attraverso Dotremont, all'attività de
"La main à plume" e, marginalmente, fra gli artisti sperimentali
olandesi (per via dei contatti stabiliti da Corneille durante il suo soggiorno
in Cecoslovacchia nell'immediato dopoguerra) ma nello stesso coté danese del
movimento (forse il più rilevante sotto il profilo delle arti visive) il cui
contatto con le tematiche surrealiste rimonta, quanto meno, al 1934, anno in
cui compare "Linien", la rivista di Wilhelm Bjerke Petersen e di
Ejler Bille, che già - nel periodo immediatamente precedente - si erano
dedicati alla redazione di due saggi famosi (sebbene tuttora non tradotti) e
decisivi per gli sviluppi delle ricerche artistiche danesi, ossia
rispettivamente "Symboler i abstrakt kunst" e "Picasso,
Surréalisme, Abstraction" (pubblicato, quest'ultimo nel 1945). Al centro degli interessi di Bjerke
Petersen e di Wilhelm Freddie (altro artista fondamentale del milieu
surréalisant danese, autore di alcune tele che, presentate alla mostra
"Sex Surreal", svoltasi nel 1937, vennero sequestrate in quanto
oltraggiose e allogate nel Museo Criminologco di Copenhagen, donde furono
successivamente recuperate da Jorn) era però una versione daliniana del
Surrealismo, assai distanti dagli interessi di Bille, Mortensen e Jorn che
propendevano invece per forme espressive più libere, atte a rendere senza
mediazioni l'intensità dell'immaginazione. E' interessante notare, in questo
contrasto, il primo affacciarsi delle tesi che verranno, in seguito,
organicamente illustrate da Jorn nel famoso articolo-manifesto apparso sul
primo numero di "Cobra", "Discours aux pingouins", fondate
su una versione eterodossa dell'automatismo surrealista, un automatismo nel
quale l'elemento fisico (materiale) si affianca a quello psichico, dominante
nell'accezione bretoniana, e conduce a concepire la pittura come fatto
prevalentemente gestuale, in analogia, come fa osservare Jaguer, con
l'affermazione di Tzara, secondo cui "la pensée se fait dans la
bouche". La pertinenza della critica espressa
"in nuce" dagli artisti danesi che si raccoglievano intorno a
"Helhesten" e più tardi sviluppata da Cobra sembrerebbe confermata
dall'evoluzione della pittura contemporanea (o immediatamente successiva) che
andava orientandosi verso le esperienze dell'Action Painting e dell'Abstraction
lyrique; ciònondimeno viene respinta da autori legati al Surrealismo ortodosso
come José Pierre, il quale in un articolo pubb1icato di recente su1 Bulletin de
liaison de l'Equipe C.A.S. (Champs des Activités Surréalistes) - ribadisce
l'inconsistenza del tentativo di superamento rivoluzionario del Surrealismo,
operato Cobra, così come della linea di contestazione (anch'essa rivolta contro
la concezione classica del1'automatismo surrealista) tracciata dal gruppo
canadese di Paul-Emile Borduas e di Jacques Riopelle nonchè dei loro omologhi
di New York, qualificata principalmente dal richiamo all'astrazione. Senza voler entrare nel merito del
problema (ciò che non fa, d'altronde, lo stesso Pierre) non si può non rilevare
l'incongruità del rimprovero di "regressione" (un termine che, in
ambito artistico appare privo di senso) diretto a Cobra e, più ancora,
1'ingegnosità del1'attribuzione di una valenza stalinista - rilevata peraltro
anche da Jacques Putman nel suo studio su Alechinsky) - al "desiderio di
rivoluzione" da esso avvertito, valenza che nel corso della vicenda del gruppo
(rammentiamo appena il pamphlet pubblicato nel 1950 da Christian Dotremont, Le
Réalisme Socialiste contre la revolution", le espressioni impiegate da
Alechinsky nel rievocare - in "Roue libre" - la rottura della
collaborazione fra il Gruppo Surrealista rivo1uzionario e 1'edizione belga de
"Les Lettres françaises" consumatasi già nel 1949 per via
dell'attenzione prestata dai membri di Cobra ad un testo eterodosso come la
"Critique de la vie quotidienne" di Henri Lefebvre) verrà
drammaticamente sconfessata. D'altronde 1'importanza di Cobra, come si
è avuta occasione di notare su queste pagine (cfr. Carlo Romano Sandro
Ricaldone, "Dialogo sulle rovine della guerra", n. 3/82) non consiste
tanto (oppure: non consiste soltanto) nel suo palese vitalismo espressivo
("un coup de poing dans l'image" secondo il motto coniato da
Bjerke-Petersen) bensì nel rendere evidente, attraverso la propria esperienza,
il deperimento del progetto totalizzante minato internamente dell'avanguardia,
minato internamente dal contrasto fra istanze di natura formale ed impulsi di
carattere etico-sociale, rivoluzionario, non privi, a loro volta, di
intrinseche contraddizioni. E tuttavia questa affermazione,
storicamente valida (come dimostreranno episodi successivi), si rovescia nel
suo contrario là dove la sperimentazione non si risolve in un mero espediente
stilistico ma raggiunge - paradossalmente - l'esito di affermare e superare,
insieme, la manifestazione artistica attraverso una polemica profonda con la
sua ragion d'essere; là dove, in una parola, "il grido individuale attinge
una dimensione comunitaria" (Christian Besson) e la spontaneità creativa
diviene veicolo di conoscenza. II - Addentrandosi nelle sale del Musée
d'Art Moderne de la Ville de Paris, che ospitano attualmente (a pochi anni di
distanza dall'esposizione del corpus delle opere di Jorn conservate presso il
Museo di Silkeborg) i lavori degli autori Cobra si va incontro ad un bestiario
la cui omogeneità, a tutta prima manifesta (e vivace), si dissolve, guidandoci
- attraverso gli uomini-uccello di Egiill Jacobsen, le immagini lunari di
Karl-Henning Pedersen, le figurazioni cromaticamente esasperate di Appel (in
cui si stravolge la traccia di Ensor e di Van Gogh); attraverso la fauna
infantile ed inquietane di Constant o quella drammatica e ferita di Jorn - alle
"foreste dell'inconscio" (J. Pierre). Ma, rilevata la distanza che separa la
"referance animale" di Cobra dalla retorica del bestiaire di Masson e
dalle connotazioni araldiche di quello di Mirò, così come la consonanza con la
ricerca, etnica e sciamanica ad un tempo, di Lam, non è difficile ravvisare in
questa esposizione altri motivi d'interesse, che appuntiamo alla rinfusa: - gli assemblages di materiali di scarto
realizzati da Heerup (di cui la Maison du Danemark ha curato nei propri locali
una più ampia retrospettiva) a partire dagli anni '30 in uno spirito ingenuo ma
pregnante che li distacca dall'enfasi iconoclastica e dall'aura capziosamente
sottile delle analoghe produzioni dadaiste e surrealiste; - la modification realizzata da Appel,
Constant, Corneille e quindi da Jorn e Nyholm nel 1949, a partire da un quadro
di Richard Mortensen e le peintures-mots di Jorn e Dotremont che - accostandosi
alla tecnica del Tableau collectif già promossa da Ernst e Arp con i collages
"fantagaga" (fabrication de tableaux garantis gazometriques) del 1920
e da Picabia con "L'oeil cacodylate" del 1921 - preludono alle
peintures detournées esposte da Jorn nel 1959 alla Galerie Rive Gauche di
Parigi ed attestano, nel contempo, uno spirito straordinario di scambio e
d'invenzione comunitaria che si prolungherà in collaborazioni eterogenee anche
dopo la dissoluzione di Cobra; - la presenza (preziosa, sognante) degli
"immaginisti" svedesi (C.O. Hulten, Anders Oesterlin, e, soprattutto,
Max Walter Svanberg, cui André Breton dedicò nel 1955 un omaggio in occasione
della mostra all'"Etoile scelllée"); - le tele di Jorn anteriori a Cobra ove si
alternano l'istintualità primitiva ("Sans titre", 1939) e le
elaborate costruzioni il cui impianto rimanda a Mirò ("Titania I",
Titania II", 1940-41) sino al capolavoro raggiunto con "Le visage de
la terre" (1948), già esposto, recentemente, nel 1978 alla retrospettiva
organizzata dalla Galerie Ariel) in cui si legge, piuttosto, l'influenza di
Klee. Questa esposizione, cui sono presenti
unicamente opere eseguite tra il 1948 e il 1951 (o nel periodo antecedente),
permette, infine, di operare un'utile puntualizzazione in merito alla scala dei
valori esistenti nell'ambito del movimento: se nessuno può contestare
seriamente a Jorn e a Constant il ruolo di leaders, l'opera di Appel e
Corneille appare invece francamente meno significativa e - astraendo dagli
sviluppi successivi, indubbiamente di grande rilievo, in particolare per il
primo - non più elevata di quella di un Wolvekamp o di un Rooskens. Alechinsky, Bury, Götz, Ubac e Kemeny
restano in qualche modo sullo sfondo mentre s'impongono all'attenzione i
dipinti di Jacobsen, i graffiti di Doucet (ben noto al pubblico genovese per la
costante presenza presso la galleria Rotta), le mostruose figure oniriche di
Stephen Gilbert e, soprattutto, sebbene un poco spaesati per il composto
equilibrio formale e l'accostamento tenue di colori, gli assemblages di legno,
tela e carta di Eugene Brands. (1983) >>> TORNA ALLA PAGINA
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