di Sandro Ricaldone "Credo, in primo luogo, che il cinema
sia troppo ricco. E' obeso. (...) I films del giorno d'oggi hanno qualcosa di
compiuto, di perfetto, di tranquillo". A parlare, tra i fischi e le urla
d'un pubblico che lo taccia alternativamente d'essere anarchico o imperialista,
è Daniel, l'alter ego di Isou nel primo lavoro cinematografico lettrista, il
"Traité de bave et d'éternité" realizzato fra il 1950 ed il 1951.
Mentre le immagini mostrano il protagonista intento a deambulare per il
boulevard Saint-Germain, in una sorta di proto "dèrive", la colonna
sonora riporta, introdotta da una voce narrante fuori campo, la registrazione
di un dibattito sul cinema (rammentato od immaginato) nell'atmosfera convulsa
d'un cine-club. Flash-back (o anti flash-back) dimidiato,
monologo interiore condotto ad ampiezza estrema, affrancato dal riferimento
visivo: quali che ne siano le matrici, questa scena assume un valore topico
nell'ambito della sperimentazione cinematografica contemporanea. Non soltanto
per la rottura dell'unità armonica d'immagine e suono (la cui corrispondenza
era stata teorizzata in termini di reversibilità all'inizio degli anni '30 da
Arthur Honegger, nell'articolo-manifesto "Dal cinema sonoro alla musica
reale") ma per l'inversione di tendenza rispetto alle antecedenti ricerche
d'avanguardia, fondate essenzialmente sul predominio del dato visuale. "Nel cinema, la foto
m'infastidisce", proclama Isou/Daniel, "La foto è ormai troppo
banale! Tutte le combinazioni di ripresa, di chiaroscuro, di sovrapposizione,
di sfumatura praticate dimostrano che bisogna andar più lontano, superare la
foto. Bisogna aggredire la pellicola". "Pugni in faccia al cinema
agonizzante", come vengono definite in un soffietto pubblicitario apparso
su "Cinema 1951", le bobine di questo film contengono secondo
l'autore, oltre ad una "nuova teoria della della foto (da distruggere,
scalpellata)" ed al "montaggio discrepante" di suono e immagine,
due altre componenti principali: una sceneggiatura che "introduce
l'immaginario nel cinema (Vi si dice: "Daniel s'è voltato" e non lo
si vede voltarsi; si agisce contro la foto, per l'invisibile,
sistematicamente)" e, attraverso l'espediente del dibattito, un marcato
tratto metafilmico ("un film che è una riflessione del cinema sul
cinema"). Ma non solo. L'aggressione portata alla
fotografia, oltre che con sfregi e cancellature, con la banalizzazione (uso di
spezzoni di cinegiornali, di pellicola vergine ecc.) combinata con la
dissociazione fra banda visiva e sonora, producono veri e propri
"détournements", prefigurando in fatto quella che sarà l'elaborazione
teorica svolta da Debord e Wolman, lettristi dissidenti, nel 1956. A rilevarlo,
di primo acchito - sia pure in un'accezione radicalmente negativa - è l'anonimo
recensore de "Le Canard Enchainé" che in una corrispondenza dal
Festival di Cannes in margine al quale il "Traité" ottenne un premio
conferitogli da una giuria di cui erano membri, fra gli altri, Cocteau e
Malaparte) censurava la pretesa isouiana di "rinnovare l'arte
cinematografica" solo perché "mentre si proietta sullo schermo il
volto di André Maurois gli si accosta, ad esempio, una battuta che recita:
'Daniel si lava i piedi' ". "Pour le premier film, cela
suffit...", chiosa Isou/Daniel, affermando di poter rinnovare,
radicalmente, mille volte ancora, l'arte dello schermo. In realtà l'incidenza
del "Traité de bave et d'éternité" sembra esser andata oltre la
semplice dimensione innovativa: se risulta in certa misura fondata l'osservazione
svolta all'epoca da Maurice Scherer (alias Eric Rohmer) nei "Cahiers du
cinèma", secondo cui "a differenza degli esponenti delle avanguardie
degli anni '30, che tentavano di fare del film il campo d'applicazione delle
loro teorie pittoriche, musicali o letterarie, i problemi che l'autore vuol
risolvere sono di ordine specificamente cinematografico" nel tentativo
isouiano si coglie anche, in prospettiva, l'avvio d'un processo che -
attraverso la distruzione della tradizionale forma filmica - sarebbe approdato ad
un'opera meramente immaginaria (od, altrimenti, virtuale). In questo schema evolutivo rientra l'opera
prima di Maurice Lemaître "Le film est dejà commencé" (1951), dove
alla ripresa delle tecniche sperimentate da Isou si accompagna "la
distruzione dello schermo nella sua forma tradizionale" (con l'inserimento
di oggetti e di persone) e "l'introduzione di elementi
tridimensionali" costituiti da "attori che dialogano con lo schermo,
l'operatore, gli spettatori in una messa in scena che fa parte integrante della
rappresentazione cinematografica". Ma forse con maggiore evidenza rispetto al
tentativo di Lemaître, fortemente segnato da una precoce demarche intermediale,
è nei lavori di Gil J. Wolman e Guy-Ernest Debord che si evidenzia
l'aspirazione al superamento, tout court, dell'arte cinematografica. Del primo,
l'"Anti-concept", presentato al Festival di Cannes nel 1952, consta
di una sola immagine: un cerchio bianco realizzato a mano sulla pellicola, da
proiettare su uno schermo sferico mentre scorre una colonna sonora composta di
frasi spezzate, poemi lettristi, suites "megapneumiche";
un'alternanza di bianchi e neri che azzerando ogni elemento di rappresentazione
non esibisce altro che la semplice durata. "Hurlements en faveur de
Sade" (1952), del secondo, giustappone sequenze interamente bianche, cui è
associato il sonoro (dialoghi, estratti di stampa, aforismi, disposizioni di
legge, dichiarazioni sovversive ecc.), a sequenze nere silenziose di lunghezza
variabile da pochi secondi a ventiquattro minuti. Ancora, "Tambours du jugement
premier" (1952) di François Dufrêne, diviene - si dice per mancanza di
denaro, per quanto nel "Prodrome" pubblicato su "Ion"
unitamente alla sceneggiatura si parli di "sopprimere lo schermo dello
schermo", di "interrompere l'immagine prima dell'immagine", di
"mettere in dubbio l'essenza stessa del cinema" - il primo film senza
pellicola, di cui sopravvive, oltre allo scenario, solo una tarda registrazione
sonora (1981). Stupisce, di fronte alla voga
dell'underground statunitense, l'oblio sceso su questa fase storica del cinema
lettrista, sollevato solo ad un quarto di secolo di distanza, con la rassegna
"Une histoire du cinèma" (1976) promossa da Peter Kubelka al Centre
Pompidou e con la manifestazione "Film Lettriste (1951- 1982)", proposta
sei anni dopo, nella medesima sede, da François Letaillieur, quasi
contemporaneamente alle comparse italiane al Cabaret Voltaire di Torino (1977),
alle Giornate Internazionali del Cinema d'Artista (Firenze, 1979/80), alla
quinta edizione de "Il gergo inquieto" su "Trent'anni di cinema
sperimentale francese" a cura di Ester De Miro e Dominique Noguez (Genova
1983). A far luce su questa vicenda, consegnata
al numero unico di "Ion", pubblicato nel 1952 da Marc-Gilbert
Guillaumin (Marc'O), alle "Oeuvres de Spectacle" (1964) di Isou ed
alle molteplici brochures di Lemaître (cui debbono aggiungersi gli interventi
di Noguez, di Giorgio Sebastiano Brizio ed il saggio di Pietro Ferrua
"Fortuna e sfortuna del lettrismo cinematografico" apparso su
"Ocra" nel 1984 e riedito, con aggiornamenti, l'anno successivo nei
"Pamphlet/Tracce" con il titolo "Avanguardia cinematografica
lettrista"), viene ora il volume "Le Cinèma Lettriste
(1951/1991)" di Frederique Devaux, edito da Paris Experimental nella
collezione "Classiques de l'Avant-Garde" diretta da Christian Lebrat. Esponente di primo piano della generazione
lettrista degli anni '80, la Devaux fornisce nel suo studio non soltanto una
ricostruzione puntuale degli esordi della cinematografia lettrista ma ne
documenta gli sviluppi attraverso i successivi decenni, illustrando i
contributi offerti da Roland Sabatier, da Alain Satié, Gerard Broutin, Francois
Poyet, Albert Dupont e Michel Amarger. Ciò che vi si riscontra - al di là della
filologica classificazione nei diversi ambiti contemplati dall'estetica isouiana:
immaginario, infinitesimale, politanasico ecc. - è il collocarsi della
produzione che i lettristi persistono a dichiarare cinematografica, nei decenni
'60 e '70, in un clima latamente concettuale ove la ripresa e la proiezione
cedono sovente il posto a procedimenti che, attraverso l'uso di elementi
evocativi, mirano a sollecitare la partecipazione creativa di coloro che solo
impropriamente possono ancora definirsi spettatori. Ne sono un esempio i films di Roland
Sabatier "Adieu Meliés" (1969), in cui l'autore si limita a
presentare una sedia, accompagnata dal commento: "del cinema distrutto non
resta che la sedia vuota dello spettatore", e "Mille neuf cent
soixante huit", dello stesso anno, che consiste nella descrizione
dell'immagine e della colonna sonora che gli astanti non vedono nè odono
direttamente. O, ancora, "Esquisses" (1978), in cui la colonna sonora
recita frasi articolate sui verbi "potere", "volere",
"dovere", "sapere" che designano l'impossibilità di
pervenire alla realizzazione dell'opera: "non VOGLIO fare un film",
"non POSSO fare un film" ecc.. Analogamente "Film infinitèsimal
'sculpture'" (1982) di Alain Satié, consta della descrizione - da parte
dell'autore - di una scatola contenente una bobina che non verrà proiettata.
"Coupures" (1971/78) di Gerard-Philippe Broutin propone una sequenza
d'interruzioni d'un film che l'operatore non riesce a proiettare, mentre
"Exit" (1987) di Albert Dupont si presenta come l'autorizzazione ad
uscire da una rappresentazione immaginaria. Mentre prosegue copiosa la produzione di
Maurice Lemaître (la sua filmografia comprende più di duecento opere, talune
fondamentali come "Pour faire un film" (1963), ove spettatori e
critici sono invitati a girare il film di cui l'autore ha soltanto individuato
il titolo o "Projection privée" (1978) che, all'opposto, costruito
sul rifiuto, espresso dal presentatore - bendato e munito di cuffie ermetiche
alle orecchie - d'accogliere qualsiasi apporto degli spettatori), le realizzazioni
dei lettristi dell'ultima generazione sembrano nuovamente volgersi
all'immagine. Nello stesso anno (1980) che vede il compimento, da parte di
François Poyet, di "N'icone, ni pellicules", Frederique Devaux
sintomaticamente propone "Film avec pellicule", proiettato su
specchi. "Cursivités" (1982) di Michel Amarger è basato su diversi
tipi di alterazione e di montaggio di titoli di testa, mentre il precedente
"Un petit bol d'air" (1981) si fonda sulla composizione arbitraria del
fotogramma in cui sono accostati frammenti di riprese senza rapporto.
"Kol'R" (1982), frutto di una collaborazione con Frederique Devaux, è
un breve film in super 8 sviluppato con un prodotto inidoneo che, colorando di
rosso la pellicola, oblitera il soggetto originale, rendendolo press'a poco
invisibile. Che ancor oggi, dopo aver precorso - più o
meno direttamente - l'underground, l'expanded cinema, l'happening e in
certo modo l'arte concettuale, il cinema lettrista mantenga il furore da cui
Isou (ben prima di Handke) si sentiva spinto ad ingiuriare il pubblico induce a
concludere che le sue "cupe facezie" (l'espressione è di Robert
Benayoun) non mancassero di sostanza, rendendone davvero "l'ortodossia
forte abbastanza da abbracciare tutte le eresie immaginabili". (1995) >>> TORNA ALLA PAGINA
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