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Sandro Ricaldone (R) - All'inizio del suo percorso si
collocano un'esperienza di perfezionamento a Parigi, la frequentazione di
Darmstadt... Sylvano Bussotti (B) - La prima esperienza fuori
d'Italia l'ho avuta con l'invito ad un festival organizzato ad Aix-en-Provence.
Dove non avrei potuto andare, visto che stavo facendo il servizio militare. Mio
padre, che lavorava in teatro a Firenze, chiese al sindaco di allora, La Pira,
di intervenire e mi fu accordato un permesso speciale di espatrio. Ad Aix ho
conosciuto Pierre Boulez, che mi ha fatto arrivare a Parigi. Lì ho potuto studiare con Max Deutsch, che
era rimasto colpito dal fatto che in una delle mie composizioni avessi
introdotto i campanacci da mucca, usati in precedenza anche da Mahler e da
Schönberg... Con Deutsch studiava, fra gli altri, Klaus Metzger,
di cui divenni subito amico. Fu lui ad introdurmi nella cerchia di Stockhausen
a Darmstadt. R - Metzger ha avuto un ruolo importante nella
vicenda europea di Fluxus. B - Sì, è stato lui a coinvolgermi. Aveva un ruolo
importante nell'organizzazione dei concerti Fluxus. Era un musicista dotato, ma
forse era troppo critico riguardo al suo lavoro e spesso lo lasciava allo stato
di frammento. Forse i suoi contributi migliori sono stati nel campo della
musicologia. R - Lei ha
lavorato poi anche con Adorno. B - Sì, qualche anno dopo. E' stato un rapporto molto
felice perché ebbi l'idea di provocarlo sul piano della creatività. Pensavo: se
Adorno è un così grande filosofo, un così grande musicologo, deve essere anche
un artista, un musicista. Così lo indussi a mostrarmi le sue composizioni
giovanili che feci pubblicare. Organizzammo anche un grande concerto a Roma,
con il Goethe Institut, dedicato ai suoi lieder che vennero eseguiti da una
cantante con cui anch'io ho lavorato molto Eliana Poli. Adorno ne rimase
entusiasta. R - Ho l'impressione che negli anni '50 e '60 ci
fosse una concentrazione di stimoli davvero straordinaria ... B - E' stato un ventennio di grande effervescenza,
trascorso senza che mi staccassi mai dall'attività. La pittura non era seconda
ma intimamente legata, anzi. Tante cose venivano, con la partitura. Poi c'è
stato l'insegnamento, a Fiesole, o con qualche allievo che mi interessava. I
rapporti con le istituzioni musicali sono venuti dopo ancora. Se penso che ho
diretto la Fenice… E la Biennale, che è andata molto meglio. Mi sono divertito
di più... R - Anche nella direzione d'orchestra? B - Tutte le volte che ho avuto delle offerte, che ho
avuto la possibilità di dirigere si sono verificati dei conflitti
incandescenti, perché mi stupivo di vedere le persone che normalmente
soffiavano in un clarinetto o tiravano l'arco su un violino in maniera
ineccepibile, in un qualunque dialogo di carattere musicale (che a me non
bastava, doveva essere anche di natura artistica più vasta) cadere dalle
nuvole... Allora tutto questo mi ha indotto a prendere le distanze. Viceversa la messa in scena, l'allestimento di
spettacoli, non solo trovavo che era un mondo più complesso, ma era un mondo
che poteva consentirmi una realizzazione più piena. Così come sono sempre stato
intollerante con il pensiero speculativo, allo stesso tempo non ho mai capito
come non fosse l'autore ad inventare tutto quello che si vedeva, si sentiva in
un'opera, dalla a alla zeta. In altri tempi era così, l'autore era in grado di
fare tutto, di coprire tutti gli ambiti. Pensiamo a Leonardo da Vinci. Di Leonardo noi non conosciamo la musica
perchè, purtroppo, all'epoca non usava scriverla e non era presa sul
serio. Lui ha scritto un po' di tutto
ma la musica allora non la si scriveva, la si suonava, come fanno i rockettari
oggi, che non la sanno scrivere. La
specializzazione è venuta dopo, fra Settecento e Ottocento. Certo Mozart fa
eccezione, si è talmente consumato nello scrivere musica, nel vivere musica...
non ho nessun dubbio che per l'allestimento visivo delle sue opere, Mozart
fosse implicato nè più nè meno... In particolare quando scelse di scrivere per
il teatro di marionette o l'equivalente piuttosto che per il teatro classico,
paludato, era perché era più libero di inventarsi cose, scherzi. Poi c'è stato da metà Settecento sino ad ora
una specializzazione che è una specie di atrofia. Eppure, se si guarda bene, ci
sono dei casi in cui si vede che anche oggi per un artista è naturale coltivare
discipline diverse. Paul Klee si limitava a suonare la viola ma la suonava come
un grande violista: una parte della sua giornata era dedicata suonare in quartetto...
"Giallo", di Kandinsky, è scritto con cognizione musicale. Che le
discipline artistiche si chiudano ciascuna in sé stessa, è un fatto abbastanza recente, una tendenza
che va addossata ai ministeri, alla scuola, sia oggi sia cento, centocinquanta anni
fa'. R - All'interno di Fluxus questa idea di
"intermedialità" era centrale. E una figura come quella di John Cage
sembra incarnare forse più di ogni altra nel '900 questa qualità di artista a
tutto campo. B - Il nome di John Cage non è venuto fuori sinora
nel nostro discorso, non so perché. Però, tornando a questa idea delle
commistioni delle discipline, per me è stata una necessità vitale, una
necessità che l'età non guarisce, semmai peggiora ... D'altronde se non ci fosse stata, se non aveste esposto quelle
mie partiture l'estate scorsa a Genova, non ci saremmo mai conosciuti, noi, non
avrei dovuto pensare più a fare mostre, avrei dovuto tenere i manoscritti
musicali per me, per i fatti miei. Adesso invece me li sto strappando con gli
editori perché hanno acquisito tutto un altro senso e significato. R - Cage l'aveva incontrato a Darmstadt? B - Ecco, lui venne osteggiato da tutti in Europa
perché erano tutti invidiosi... Non potevamo parlare, non parlando io
l'inglese. Il suo francese, allora, non era granché. Parlavamo attraverso Metzger. Facevamo lunghe passeggiate alla
ricerca di funghi. R - Come micologo Cage era rinomato. Era stato anche
a "Lascia o raddoppia". B - Tutta questa vicenda di Cage a "Lascia o
raddoppia" l'ho vissuta proprio quotidianamente. Queste concorsi
televisivi si vincono se si ha una buona memoria. Lui veniva sempre da mia zia,
la sorella di Tono Zancanaro, per farsi ripassare cinquanta nomi di funghi in
latino e altre cose. Ci vedevamo spesso, in quel periodo. Facevamo anche dei
concerti, in cui io ho suonato molta musica di Cage e lui mi ha regalato dei
manoscritti molto belli. Quando è morto, La Stampa di Torino mi ha chiesto di
scriverne una commemorazione. Allora ho provato una sensazione feroce,
terribile: mi sono messo a piangere e ho durato tutta la mattina senza riuscire
a spiegarne la ragione alle persone che mi stavano intorno, perché ho sentito
uno strappo paterno fortissimo. John Cage portò tutto un vento d'America che Varèse
era andato a cercare laggiù. Io avevo incontrato Varèse e quando lui fece il
famoso poema elettronico all'Expo di Bruxelles non mi aveva colpito come Cage.
Rientrava pur sempre, anche se da rivoluzionario autorevole, in un ambito
strettamente musicale. Per capire, per essere partecipe come interprete
dell'opera di Cage, bisognava dimenticarsela la musica che si impara nelle
accademie, sia pure d'avanguardia ... Bisognava fare attenzione agli esseri
umani, alla bizzarria degli strumenti, che sono tutti diversi gli uni dagli
altri... Queste cose furono molto importanti per me, anche se all'epoca non lo
si vide così chiaramente e forse io stesso non stavo neanche ad interrogarmi in
proposito, perché una delle caratteristiche che, visivamente, mi caratterizzano
di più è questa passione miniaturistica, di riempire minuziosamente le pagine,
sempre però con estrema precisione... che era tutto il contrario del caso,
dell'abbandonarsi totalmente al caso, di John Cage e di tutta la scuola
americana. R - Parliamo un po' delle sue partiture. Come
nascono? B - Quando va bene perché sono commissionate. (Ride).
Tutto viene in un modo che adesso, in età più che matura, si sta precisando.
Questa storia che l'uomo, che quello che dice poeticamente non fa che
riprendere e sviluppare un solo un nucleo formale, mi sto accorgendo adesso di quanto sia terribilmente vera. Ho
avuto la possibilità di riprendere lavori della seconda metà degli anni '40-'50
e di riconoscerne il filo... Il mio impegno di musicista è un lavoro fatto di
frammenti fra cui procedo sperando di poterli legare a progetti abbastanza
importanti. Questi progetti importanti si rivoltano contro le partiture, si
rivoltano contro l'autore in varie forme ... Poi, alla fine, trovano un loro
aspetto. Come in questo lavoro su Mallarmé che sto terminando per il Museo
d'Orsay. Una cosa semplice... siamo un complesso molto ristretto: il baritono,
l'attore (che farò io), il flauto, il pianoforte. La musica viene per proliferazione, cioè non abbandonando mai
nessun frammento, in questo molto lontana, in apparenza, dall'estetica del
caso. Un lungo serpente, una corrente che va avanti. Io mi sono imposto sempre una scrittura difficile quanto si vuole
ma inattaccabile sulla fattibilità e naturalmente se si tratta di fare un'opera
non per un complesso così ristretto ma con un'orchestra o un coro i problemi
crescono. Bisogna considerare tutti i punti di vista, tutti i ruoli coinvolti,
non soltanto il direttore d'orchestra ma l'ultimo violino, la comparsa ...
l'elettricista. Io devo essere in grado di conoscere il suo strumento per poter
chiedere a ciascuno di fare quanto ho immaginato. Penso di esserlo, ma
lavorando tantissimo, devo essere io per primo a fare un numero di ore di
scrittura al giorno. Questo da sempre. R - E per l'aspetto grafico? B - Se uno scrive quaranta pagine di partitura, sui
pentagrammi, identiche secondo il profano a quelle di Chopin, e poi ne vengono
fuori tre del tutto diverse, particolari, ecco che si parlerà solo di quelle
tre pagine lì. C'è chi domanda, nei dibattiti dopo i concerti: "Ma lei ha
avuto bisogno di scrivere così perché non poteva scrivere nel modo
convenzionale?" No, non si
spiegano in modo così banale. Semplicemente il segno musicale è una
convenzione, ma è così bello come segno. Avendolo assunto tante volte, capita
di farlo diventare la ramificazione di un albero, riproducendo l'albero o un
dato astratto, facendo come Mondrian ecc. . E' talmente ricco, il segno
musicale, è talmente importante che non si può non deviare da una scrittura
convenzionale... Ecco: le mie partiture non convenzionali nascono in questo
modo. Un modo che però è stato a lungo di assoluta minoranza, quasi solitario:
d'altra parte io rivendico la condizione di minoranza di queste pagine,
chiamiamole: grafiche, estrose, misteriose eccetera. Perché se queste pagine
fossero centinaia come accade generalmente del mio lavoro, tutte così, si
perderebbe molto del valore, il contrasto fra l'immagine musicale scritta
normalmente e l'immagine invece scritta altrimenti. R - Parliamo della sua produzione di carattere
letterario ... poetico. Lei ha pubblicato una serie di volumi che non sono
facilmente reperibili. B - Purtroppo, ma anche per la mia musica accade lo
stesso. R - Ma la musica ha un'organizzazione, come lei
diceva, più complessa. B - Che ci fa consolare che non la tocchiamo quasi
mai. R - Il libro è destinato ad una diffusione
capillare. Per esempio il suo volume
"I miei teatri" ... B - La Novecento di Palermo, che l'ha pubblicato, mi
ha comunicato che ha stravenduto tutto, che è sparito e che non esiste più. Secondo
loro è un libro che ha avuto una diffusione enorme ... secondo loro. C'è invece
un libro illustrato, un catalogo, molto meno importante letterariamente,
tradotto in tre lingue, quello ha girato effettivamente il mondo. Ogni tanto
sento qualcuno che lo trova qua e là, però io non ne so nulla. R – E il "Codice di arti belle"? B - "Codice di arti belle" è nato un po'
come una cartella di grafica, come nasce di solito questo tipo di imprese ...
Ci siamo messi d'accordo: non ci doveva essere nulla di letterario. Quando si
scrive un testo a corredo di immagini, sono pochissime le persone che lo
leggono davvero. Gli altri sono immediatamente attratti dall'immagine, e al
testo danno una scorsa distratta. Secondo me il testo che ho scritto per
"Codice di arti belle" è un testo bellissimo, uno dei più importanti,
che meriterebbe anche di essere pubblicato a parte. R - Tornando al problema della complessità dell'opera
e del suo progetto, cui accennava prima, il “Bussottioperaballet”. Come nasce e come si propone? B - Nasceva al ritorno del primo viaggio negli
U.S.A., da una mia caratteristica di fondo, alla qaule ho già accennato. Ho
sempre lavorato tantissimo e continuo a farlo. Ma non sono mai stato capace o
forse non ho mai voluto creare l'equivalente di un mercato mio, del musicista o
del pittore. Spesso mi sento dire da Mario Ceroli, un amico,
"Faresti miliardi se facessi come me". A volte scherziamo su questo.
La ragione però è semplice: non mi interessa lavorare in modo settoriale. Non
penso a un brano musicale o ad un disegno come fatti isolati: preferisco
immaginarli come parte di un insieme, credo di essere un autore di eventi. Una
"Bohème" passa come un evento. Il mio allestimento della
"Gioconda" a Genova è stato un evento, eccetera. Le direzioni dei teatri dovrebbero essere
felici di avere un evento tutte le sere, ma forse allora non sarebbe più un
evento. E' dunque una situazione
curiosa e anche faticosa. Faticosa però in fondo non posso dirlo. Il primo a
star bene deve essere chi lo fa.
D'altra parte è pur vero che mi guardo in giro e che, anche leggendo, vedo che una grossa quantità
di artisti in tutti i campi recitano (o vivono, che è ancor peggio) una
infelicità fondamentale. Secondo molti non puoi essere artista se non c'è una
tragedia, se non hai delitti, malattie, un rapporto teso con la vita. Fortunatamente non mi capita questo. (intervista raccolta da Sandro Ricaldone a Genzano il 31 ottobre 1998) >>>
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