Intervista a
SYLVANO BUSSOTTI

(31/10/1998)


 

 

 

Sandro Ricaldone (R) - All'inizio del suo percorso si collocano un'esperienza di perfezionamento a Parigi, la frequentazione di Darmstadt...

Sylvano Bussotti (B) - La prima esperienza fuori d'Italia l'ho avuta con l'invito ad un festival organizzato ad Aix-en-Provence. Dove non avrei potuto andare, visto che stavo facendo il servizio militare. Mio padre, che lavorava in teatro a Firenze, chiese al sindaco di allora, La Pira, di intervenire e mi fu accordato un permesso speciale di espatrio. Ad Aix ho conosciuto Pierre Boulez, che mi ha fatto arrivare a Parigi.  Lì ho potuto studiare con Max Deutsch, che era rimasto colpito dal fatto che in una delle mie composizioni avessi introdotto i campanacci da mucca, usati in precedenza anche da Mahler e da Schönberg...

Con Deutsch studiava, fra gli altri, Klaus Metzger, di cui divenni subito amico. Fu lui ad introdurmi nella cerchia di Stockhausen a Darmstadt.

R - Metzger ha avuto un ruolo importante nella vicenda europea di Fluxus.

B - Sì, è stato lui a coinvolgermi. Aveva un ruolo importante nell'organizzazione dei concerti Fluxus. Era un musicista dotato, ma forse era troppo critico riguardo al suo lavoro e spesso lo lasciava allo stato di frammento. Forse i suoi contributi migliori sono stati nel campo della musicologia.

R  - Lei ha lavorato poi anche con Adorno.

B - Sì, qualche anno dopo. E' stato un rapporto molto felice perché ebbi l'idea di provocarlo sul piano della creatività. Pensavo: se Adorno è un così grande filosofo, un così grande musicologo, deve essere anche un artista, un musicista. Così lo indussi a mostrarmi le sue composizioni giovanili che feci pubblicare. Organizzammo anche un grande concerto a Roma, con il Goethe Institut, dedicato ai suoi lieder che vennero eseguiti da una cantante con cui anch'io ho lavorato molto Eliana Poli. Adorno ne rimase entusiasta.

R - Ho l'impressione che negli anni '50 e '60 ci fosse una concentrazione di stimoli davvero straordinaria ...

B - E' stato un ventennio di grande effervescenza, trascorso senza che mi staccassi mai dall'attività. La pittura non era seconda ma intimamente legata, anzi. Tante cose venivano, con la partitura. Poi c'è stato l'insegnamento, a Fiesole, o con qualche allievo che mi interessava. I rapporti con le istituzioni musicali sono venuti dopo ancora. Se penso che ho diretto la Fenice… E la Biennale, che è andata molto meglio. Mi sono divertito di più...

R - Anche nella direzione d'orchestra?

B - Tutte le volte che ho avuto delle offerte, che ho avuto la possibilità di dirigere si sono verificati dei conflitti incandescenti, perché mi stupivo di vedere le persone che normalmente soffiavano in un clarinetto o tiravano l'arco su un violino in maniera ineccepibile, in un qualunque dialogo di carattere musicale (che a me non bastava, doveva essere anche di natura artistica più vasta) cadere dalle nuvole... Allora tutto questo mi ha indotto a prendere le distanze. 

Viceversa la messa in scena, l'allestimento di spettacoli, non solo trovavo che era un mondo più complesso, ma era un mondo che poteva consentirmi una realizzazione più piena. Così come sono sempre stato intollerante con il pensiero speculativo, allo stesso tempo non ho mai capito come non fosse l'autore ad inventare tutto quello che si vedeva, si sentiva in un'opera, dalla a alla zeta. In altri tempi era così, l'autore era in grado di fare tutto, di coprire tutti gli ambiti. Pensiamo a Leonardo da Vinci.  Di Leonardo noi non conosciamo la musica perchè, purtroppo, all'epoca non usava scriverla e non era presa sul serio.  Lui ha scritto un po' di tutto ma la musica allora non la si scriveva, la si suonava, come fanno i rockettari oggi, che non la sanno scrivere.  La specializzazione è venuta dopo, fra Settecento e Ottocento. Certo Mozart fa eccezione, si è talmente consumato nello scrivere musica, nel vivere musica... non ho nessun dubbio che per l'allestimento visivo delle sue opere, Mozart fosse implicato nè più nè meno... In particolare quando scelse di scrivere per il teatro di marionette o l'equivalente piuttosto che per il teatro classico, paludato, era perché era più libero di inventarsi cose, scherzi.  Poi c'è stato da metà Settecento sino ad ora una specializzazione che è una specie di atrofia. Eppure, se si guarda bene, ci sono dei casi in cui si vede che anche oggi per un artista è naturale coltivare discipline diverse. Paul Klee si limitava a suonare la viola ma la suonava come un grande violista: una parte della sua giornata era dedicata suonare in quartetto... "Giallo", di Kandinsky, è scritto con cognizione musicale. Che le discipline artistiche si chiudano ciascuna in sé stessa, è  un fatto abbastanza recente, una tendenza che va addossata ai ministeri, alla scuola, sia oggi sia cento, centocinquanta anni fa'.

R - All'interno di Fluxus questa idea di "intermedialità" era centrale. E una figura come quella di John Cage sembra incarnare forse più di ogni altra nel '900 questa qualità di artista a tutto campo.

B - Il nome di John Cage non è venuto fuori sinora nel nostro discorso, non so perché. Però, tornando a questa idea delle commistioni delle discipline, per me è stata una necessità vitale, una necessità che l'età non guarisce, semmai peggiora ...  D'altronde se non ci fosse stata, se non aveste esposto quelle mie partiture l'estate scorsa a Genova, non ci saremmo mai conosciuti, noi, non avrei dovuto pensare più a fare mostre, avrei dovuto tenere i manoscritti musicali per me, per i fatti miei. Adesso invece me li sto strappando con gli editori perché hanno acquisito tutto un altro senso e significato.

R - Cage l'aveva incontrato a Darmstadt?

B - Ecco, lui venne osteggiato da tutti in Europa perché erano tutti invidiosi... Non potevamo parlare, non parlando io l'inglese. Il suo francese, allora, non era granché.  Parlavamo attraverso Metzger. Facevamo lunghe passeggiate alla ricerca di funghi.

R - Come micologo Cage era rinomato. Era stato anche a "Lascia o raddoppia".

B - Tutta questa vicenda di Cage a "Lascia o raddoppia" l'ho vissuta proprio quotidianamente. Queste concorsi televisivi si vincono se si ha una buona memoria. Lui veniva sempre da mia zia, la sorella di Tono Zancanaro, per farsi ripassare cinquanta nomi di funghi in latino e altre cose. Ci vedevamo spesso, in quel periodo. Facevamo anche dei concerti, in cui io ho suonato molta musica di Cage e lui mi ha regalato dei manoscritti molto belli. Quando è morto, La Stampa di Torino mi ha chiesto di scriverne una commemorazione. Allora ho provato una sensazione feroce, terribile: mi sono messo a piangere e ho durato tutta la mattina senza riuscire a spiegarne la ragione alle persone che mi stavano intorno, perché ho sentito uno strappo paterno fortissimo.

John Cage portò tutto un vento d'America che Varèse era andato a cercare laggiù. Io avevo incontrato Varèse e quando lui fece il famoso poema elettronico all'Expo di Bruxelles non mi aveva colpito come Cage. Rientrava pur sempre, anche se da rivoluzionario autorevole, in un ambito strettamente musicale. Per capire, per essere partecipe come interprete dell'opera di Cage, bisognava dimenticarsela la musica che si impara nelle accademie, sia pure d'avanguardia ... Bisognava fare attenzione agli esseri umani, alla bizzarria degli strumenti, che sono tutti diversi gli uni dagli altri... Queste cose furono molto importanti per me, anche se all'epoca non lo si vide così chiaramente e forse io stesso non stavo neanche ad interrogarmi in proposito, perché una delle caratteristiche che, visivamente, mi caratterizzano di più è questa passione miniaturistica, di riempire minuziosamente le pagine, sempre però con estrema precisione... che era tutto il contrario del caso, dell'abbandonarsi totalmente al caso, di John Cage e di tutta la scuola americana.

R - Parliamo un po' delle sue partiture. Come nascono?

B - Quando va bene perché sono commissionate. (Ride). Tutto viene in un modo che adesso, in età più che matura, si sta precisando. Questa storia che l'uomo, che quello che dice poeticamente non fa che riprendere e sviluppare un solo un nucleo formale,  mi sto accorgendo adesso di quanto sia terribilmente vera. Ho avuto la possibilità di riprendere lavori della seconda metà degli anni '40-'50 e di riconoscerne il filo... Il mio impegno di musicista è un lavoro fatto di frammenti fra cui procedo sperando di poterli legare a progetti abbastanza importanti. Questi progetti importanti si rivoltano contro le partiture, si rivoltano contro l'autore in varie forme ... Poi, alla fine, trovano un loro aspetto. Come in questo lavoro su Mallarmé che sto terminando per il Museo d'Orsay. Una cosa semplice... siamo un complesso molto ristretto: il baritono, l'attore (che farò io), il flauto, il pianoforte.  La musica viene per proliferazione, cioè non abbandonando mai nessun frammento, in questo molto lontana, in apparenza, dall'estetica del caso. Un lungo serpente, una corrente che va avanti.  Io mi sono imposto sempre una scrittura difficile quanto si vuole ma inattaccabile sulla fattibilità e naturalmente se si tratta di fare un'opera non per un complesso così ristretto ma con un'orchestra o un coro i problemi crescono. Bisogna considerare tutti i punti di vista, tutti i ruoli coinvolti, non soltanto il direttore d'orchestra ma l'ultimo violino, la comparsa ... l'elettricista. Io devo essere in grado di conoscere il suo strumento per poter chiedere a ciascuno di fare quanto ho immaginato. Penso di esserlo, ma lavorando tantissimo, devo essere io per primo a fare un numero di ore di scrittura al giorno. Questo da sempre.

R - E per l'aspetto grafico?

B - Se uno scrive quaranta pagine di partitura, sui pentagrammi, identiche secondo il profano a quelle di Chopin, e poi ne vengono fuori tre del tutto diverse, particolari, ecco che si parlerà solo di quelle tre pagine lì. C'è chi domanda, nei dibattiti dopo i concerti: "Ma lei ha avuto bisogno di scrivere così perché non poteva scrivere nel modo convenzionale?"  No, non si spiegano in modo così banale. Semplicemente il segno musicale è una convenzione, ma è così bello come segno. Avendolo assunto tante volte, capita di farlo diventare la ramificazione di un albero, riproducendo l'albero o un dato astratto, facendo come Mondrian ecc. . E' talmente ricco, il segno musicale, è talmente importante che non si può non deviare da una scrittura convenzionale... Ecco: le mie partiture non convenzionali nascono in questo modo. Un modo che però è stato a lungo di assoluta minoranza, quasi solitario: d'altra parte io rivendico la condizione di minoranza di queste pagine, chiamiamole: grafiche, estrose, misteriose eccetera. Perché se queste pagine fossero centinaia come accade generalmente del mio lavoro, tutte così, si perderebbe molto del valore, il contrasto fra l'immagine musicale scritta normalmente e l'immagine invece scritta altrimenti.

R - Parliamo della sua produzione di carattere letterario ... poetico. Lei ha pubblicato una serie di volumi che non sono facilmente reperibili.

B - Purtroppo, ma anche per la mia musica accade lo stesso.

R - Ma la musica ha un'organizzazione, come lei diceva, più complessa.

B - Che ci fa consolare che non la tocchiamo quasi mai.

R - Il libro è destinato ad una diffusione capillare.  Per esempio il suo volume "I miei teatri" ...

B - La Novecento di Palermo, che l'ha pubblicato, mi ha comunicato che ha stravenduto tutto, che è sparito e che non esiste più. Secondo loro è un libro che ha avuto una diffusione enorme ... secondo loro. C'è invece un libro illustrato, un catalogo, molto meno importante letterariamente, tradotto in tre lingue, quello ha girato effettivamente il mondo. Ogni tanto sento qualcuno che lo trova qua e là, però io non ne so nulla.

R – E il "Codice di arti belle"?

B - "Codice di arti belle" è nato un po' come una cartella di grafica, come nasce di solito questo tipo di imprese ... Ci siamo messi d'accordo: non ci doveva essere nulla di letterario. Quando si scrive un testo a corredo di immagini, sono pochissime le persone che lo leggono davvero. Gli altri sono immediatamente attratti dall'immagine, e al testo danno una scorsa distratta. Secondo me il testo che ho scritto per "Codice di arti belle" è un testo bellissimo, uno dei più importanti, che meriterebbe anche di essere pubblicato a parte.

R - Tornando al problema della complessità dell'opera e del suo progetto, cui accennava prima, il “Bussottioperaballet”.  Come nasce e come si propone?

B - Nasceva al ritorno del primo viaggio negli U.S.A., da una mia caratteristica di fondo, alla qaule ho già accennato. Ho sempre lavorato tantissimo e continuo a farlo. Ma non sono mai stato capace o forse non ho mai voluto creare l'equivalente di un mercato mio, del musicista o del pittore.

Spesso mi sento dire da Mario Ceroli, un amico, "Faresti miliardi se facessi come me". A volte scherziamo su questo. La ragione però è semplice: non mi interessa lavorare in modo settoriale. Non penso a un brano musicale o ad un disegno come fatti isolati: preferisco immaginarli come parte di un insieme, credo di essere un autore di eventi. Una "Bohème" passa come un evento. Il mio allestimento della "Gioconda" a Genova è stato un evento, eccetera.  Le direzioni dei teatri dovrebbero essere felici di avere un evento tutte le sere, ma forse allora non sarebbe più un evento.  E' dunque una situazione curiosa e  anche faticosa.

Faticosa però in fondo non posso dirlo. Il primo a star bene deve essere chi lo fa.  D'altra parte è pur vero che mi guardo in giro e che,  anche leggendo, vedo che una grossa quantità di artisti in tutti i campi recitano (o vivono, che è ancor peggio) una infelicità fondamentale. Secondo molti non puoi essere artista se non c'è una tragedia, se non hai delitti, malattie, un rapporto teso con la vita.

Fortunatamente non mi capita questo.

 

(intervista raccolta da Sandro Ricaldone

a Genzano il 31 ottobre 1998)

 

 


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