AVANGUARDIA DECOMPOSTA A proposito di un saggio di Carlo Romano di Sandro Ricaldone Militante assai più che militare,
nonostante la riconducibilità al frasario strategico e le ironie di Baudelaire
verso quegli spiriti "fatti per la disciplina ... che non sanno pensare
che in gruppo", il termine avanguardia si é dimostrato sufficientemente
plastico per guadagnarsi un posto fra gli evergreen lessicali ed uno spettro
d'applicazione d'inusitata ampiezza. Circa gli impieghi cronologicamente prioritari,
uno studio di Estivals, Gaudy e Vergez sulle testate pubblicistiche francesi ci
informa sul lento trasmigrare di questa consuetudine metaforica dall'ambito
delle attività belliche della Rivoluzione ("L'Avant-garde de l'Armée des
Pyrenées-Orientales" appare nel 1794) alla contesa politica e da questa
alla sfera dell'innovazione produttiva. Singolarmente, in campo artistico e
letterario una rivista intitolata all'Avanguardia vedrà la luce solo nel 1882,
sebbene il termine fosse già ampiamente diffuso fra i Romantici (Victor Hugo ne
faceva uso - e la cosa non è priva d'interesse - in una lettera indirizzata nel
1828 a Theophile Gautier, a proposito della determinazione assunta da certi
"giovani artisti, pittori, scultori, musicisti", di non radersi). Non
é a dire quanto una simile eterogeneità d'impiego, nell'assicurare una fortuna
durata forse troppo a lungo, abbia rivestito il vocabolo d'ambiguità. Di fatto
l'insussistenza di un nucleo ispiratore comune - al di là del generico richiamo
all'ideologia novatrice del tardo Ottocento - ha costretto sovente gli esegeti
del fenomeno a ripiegare su una classificazione tipologica (struttura di
gruppo, autocoscienza, durata, espansione, slancio, obiettivi, relazioni,
tecniche praticate ecc.) e su una descrizione attitudinale talora
prodigiosamente dilatata - quale si riscontra nei volumi de "Les
avant-gardes litteraires au XXe siècle", allestiti per le edizioni
Akademìai Kiado di Budapest da un equipe coordinata da Jean Weisberger - ma
sempre in qualche modo schematica. Di queste difficoltà d'inquadramento - che
inducono ad una considerazione dell'avanguardia come sequenza, non poco
inflazionata, di avatara o come una sorta d'inafferrabile "signora
Proteo" (Bertozzi) - risente anche la produzione storiografica che, ormai
sterminata sui movimenti storici, si palesa in recupero sull'incubazione
ottocentesca, dal Cercle Zutique formatosi a Parigi attorno al 1871/72 agli
Incohérents (1882/93) al cui riguardo Catherine Charpin ha pubblicato di
recente un intrigante saggio. Ma il contesto meno battuto, in specie sotto il
profilo d'una ricostruzione complessiva, appare quello del secondo dopoguerra.
Se a Mirella Bandini va ascritto il merito di aver indagato - in un'ottica
prettamente eurocentrica, la linea che da CoBrA e il Lettrismo approda
all'Internazionale Situazionista - è Carlo Romano a tentare da ultimo un
bilancio complessivo degli sviluppi registrati fra il '45 ed il '60, legando la
scena continentale al panorama statunitense, in uno studio edito nel volume
collettivo curato a Giannino Malossi per Electa ("That was Tomorrow",
1990), sintomaticamente intitolato "La decomposizione
dell'avanguardia". Ed é su uno scenario di riflusso che si
apre il saggio, tuttora - per più ragioni, non ultima quella d'esser rimasto
legato ad una distribuzione prevalentemente estranea al normale circuito, come
strenna del Gruppo Finanziario Tessile - poco noto: sul "declivio
post-bellico" del Surrealismo, che tra la diffusione della sua maniera
nella versione daliniana e l'abbandono della tentazione bolscevizzante, vede
"il tramonto della possibilità di utilizzare l'Avanguardia come l'ariete
che sfonda le porte del prestabilito e demolisce il castello dei rapporti
fittizi". Si dischiude, così, una fase di frammentazione la cui complessità
non ha nulla da spartire con il convulso moltiplicarsi degli "ismi"
nel primo Novecento e che appare contraddistinta da una sorta di mediazione tra
urgenza anticipatrice e recupero critico dei precedenti storici ove la cadenza
spericolata della novazione si fonde con una seriosità filologica spinta,
talvolta, all 'estremo dell'imbalsamazione. E' il caso non tanto delle
cosiddette neo-avanguardie (Gruppo '63, entourage di "Tel Quel" ecc.)
che si muovono in una logica interna all'industria culturale battendo la bandiera,
tutto sommato tecnica, dello sperimentalismo, quanto piuttosto del Lettrismo
che riproduce in vitro gli schemi classici dell'avanguardia, sviluppandone gli
aspetti settari e megalomani in un quadro che pur proponendosi l'obiettivo di
una palingenesi estesa all'ambito sociale - con le tesi sul "soulèvement
de la jeunesse" e sull'economia nucleare - finisce col "porre
l'avanguardia artistica al centro del mutamento civile", operando una
riduzione che vedremo riprodursi, ad un livello di sofisticazione concettuale
ben più elevato, con l'Internazionale Situazionista. Una posizione strutturalmente analoga a
quella del Lettrismo viene assunta nel panorama statunitense - che l'esperienza
della Beat Generation designa come una sorta di melting pot in cui si mescolano
liberamente inputs di estrazione europea ed orientale con aspetti culturali
autoctoni (la bohème esistenzialista e il mito dell'hobo, la meditazione
buddista e la musica bop) - dalle attività di John Cage e della sua cerchia
(Tudor, Cunnigham, Rauschenberg). A prescindere dalla diversità del riferimento
storico, che per Cage è rappresentato dal Dadaismo (da Satie, in specie)
anziché dal Surrealismo, ciò che distanzia radicalmente l'avanguardia americana
da quella continentale è il modo di concepire il rapporto di gruppo. Sebbene
nella diaspora europea si siano talora manifestati episodi non troppo
caratterizzati gerarchicamente (CoBrA ed il M.I.B.I., ad esempio), vi permane
predominante una forma di legame burocratizzato, funzionale al mantenimento
dell'unità verso l'esterno e, all'interno, dell'ortodossia, assimilabile a
quella tipica del partito leninista. Negli Stati Uniti, viceversa, il modello
di aggregazione è piuttosto quello del college. Nè appare casuale che - come
Romano rileva - le sedi d'incubazione del movimento beat, del New Dada e di
Fluxus, siano state rispettivamente la Columbia University, il Black Mountain
College, e la New School for Social Research. Certo la stessa tipologia universitaria
che apriva la strada dell'interdisciplinarità e della pratica multimediale
avrebbe poi compromesso irreparabilmente l'idea di avanguardia: in Fluxus,
"gruppo che non è un gruppo", munito per di più di una poetica
negativa ("Fluxus is not ..."), la coesione raggiunge la soglia del
dissolvimento, lasciando libero il campo al feticismo iconico - a buon mercato
benché a caro prezzo - della Pop Art. All'insuccesso di Fluxus, che fallisce
l'obiettivo di un "mass-produced art amusement", lasciando ai grandi
mercanti alla Castelli un ruolo di orientamento senza precedenti, corrisponde,
sul versante europeo, lo scacco del tentativo di "superamento
dell'arte" dispiegato dai situazionisti di osservanza debordiana. Scacco
che non si determina nel mancato passaggio ad un'esteticità diffusa (la cui possibilità
rimane per essi ancorata al mutamento rivoluzionario dei rapporti di
produzione) bensì nell'aver introdotto surrettiziamente la dimensione artistica
nel processo politico, facendo del maggio '68 - come lo stesso Romano
osservava, anni or sono, in altra sede - il proprio capolavoro. Se appare
dubbio quindi che "il sogno dell'avanguardia sia stato ... finalmente
trovato (e perduto) proprio allora da molti" come afferma Stelio Maria
Martini nella sua "Breve storia dell'avanguardia" (1988), ad un
quarto di secolo di distanza lo scenario è ancor più sconfortante. La zattera
dell'intellighentsja ha desistito dal suo viaggio controcorrente, passando dal
dissenso all'apologia, peraltro non richiesta, del sistema. Poiché comunque le
"pose da gran signore, come d'altro canto quelle da pezzente; le
melanconie misteriche come i tripudi mistici" fanno parte di "un
armamentario sulla cui sparizione è difficile giurare", può essere che
qualcuno s'induca a battere nuovamente certi sentieri. Al di là di snobismi
inveterati e di possibili remakes, tuttavia, la conclusione del saggio di Carlo
Romano rimanda ad un orizzonte problematico più ampio: "Quando
un'insofferenza è sincera, la domanda "sono felice?" è l'unica in
grado di penetrare il reale. Se il bilancio della giornata è stato magro c'è
solo da chiedersi perché. Per certe risposte non si esige una particolare
condizione". (1995) >>> TORNA ALLA PAGINA
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