PIERO SIMONDO

I QUADRI MANIFESTO

a cura di Sandro Ricaldone

 

S.R. - Dopo gli anni '50, con il Bauhaus immaginista e i Monotipi, dopo gli anni '60 con il CIRA e le Topologie, negli anni '70 per te sembra cambiato tutto. Non più gruppi, una ricerca che sembra sterzare verso l'immagine mediale, verso un surplus d'immagine...

P.S. - Non direi. Intanto anche in quel periodo ho continuato ad occuparmi di gruppi, anche se all'interno dell'Università, in una prospettiva diversa. E, per quel che riguarda i quadri-manifesto, esiste più d'un collegamento con il lavoro precedente.

S.R. - In che senso?

P.S. - Con i Monotipi, ad esempio. Sotto un profilo - diciamo così - "concettuale", d'impianto c'è contiguità con la tecnica del decalco, che ho utilizzato per i quadri-manifesto. In entrambi i casi la partenza è data da un'immagine, non importa se creata o trovata, se di ascendenza tachiste o fotografica, che viene riprodotta e, nel contempo, alterata. Con il decalco l'immagine esce sbiadita, mutata nel colore...

S.R. - Rovesciata.

P.S. - Precisamente. E qui si dà, forse, un'altra connessione con i progetti topologici e, se vuoi, mediologici del CIRA. Vale a dire: nella topologia, questa geometria del foglio di gomma, entra in considerazione non solo la superficie, la facciata, ma il rivolgimento, il rovescio. E sempre nel rovescio, un rovescio invisibile perché compreso fra le pagine, si colloca in qualche modo la realtà del giornale, che - lo ricorderai - con il CIRA si era tentato d'illustrare attraverso una complessa struttura labirintica.

S.R. - Sotto l'aspetto visivo, comunque, gli esiti sono abbastanza diversi rispetto alle fasi antecedenti. Sembra che si affacci un tratto che si potrebbe definire contenutista. Le immagini di guerra, ad esempio, sembrano riflettere un certo clima dell'epoca.

P.S. - Erano gli anni della guerra nel Vietnam, certo, e avevo un atteggiamento definito al riguardo. Ma questa componente, che pure c'è, che si avverte, non mi sembra decisiva. Come non direi determinante la riflessione sullo stereotipo che può emergere da altri lavori, basati - che so? - su foto da rotocalco, di attrici, di soggetti femminili effigiati sistematicamente nella stessa posa.

S.R. - Taluni accostamenti sembrano leggibili nell'ottica della banalizzazione e del détournement.

P.S. - In parte. Ma torno a ribadire che per me l'alterazione, la trasformazione dell'immagine è cosa che investe più forma e struttura (per riprendere termini jorniani) che non l'estrapolazione e la ricontestualizzazione di unità semantiche discrepanti.

S.R. - E' più un fatto di pittura, vuoi dire? Anche se la tua pittura in definitiva non è di pennello, si realizza nell'imprimere (i monotipi), nel trasferire (i quadri-manifesto), o, ancora, nel coprire e dissolvere (le ipopitture) e nel levare (i nitroraschiati)...

P.S. - Vedi, la pittura per me non si identifica con il segno individuale, è un "trovar figure", è riconoscimento, mettere in risalto ciò che magari già esiste. In questo senso i quadri-manifesto, così "pieni", non si proponevano di veicolare un messaggio, di questo in sostanza m'importava poco, ma sono una specie di ecologismo, un riciclare le immagini, tutta questa roba che viene spazzata via ogni giorno.

S.R. - Senza però quella restituzione d'aura che si riscontra nelle poetiche pop o novorealiste.

P.S. - Semmai è proprio a partire dall'azzeramento, dalla loro incapacità a comunicare prodotta dalla ridondanza e dalla routine che diviene possibile accostarsi a queste immagini - quasi in analogia con l'espediente leonardiano di sondare le nuvole o le macchie su una parete - per "trovar figure"...

 

(intervista realizzata a Torino il 15/5/1993)




 

 

 

 

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